Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando nel gennaio 2018 il governatore uscente della Lombardia (nonché più volte ministro e fondatore della Lega Nord insieme a Bossi) Roberto Maroni, ufficialmente non ricandidato per sua volontà, accusava il suo segretario federale Matteo Salvini di utilizzare “metodi stalinisti”. Ergo: il capo sono io e comando io, senza possibilità di dialettica e tantomeno di dissenso interno: la Lega di Salvini è questa, prendere o lasciare. O meglio era, perché l’immagine dell’uomo solo al comando, del leader carismatico intoccabile e incontestabile, si è andata via via offuscando.
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BEI TEMPI
Sono lontani i tempi del trionfale 34,3% alle Europee del maggio 2019, quando il Carroccio col vento in poppa era la prima forza nel Paese e già all’epoca, in ogni caso, Giancarlo Giorgetti – sempre lui – invitava a tenere sulla scrivania una foto di Matteo Renzi, passato in poco tempo dal 40% alla miseria che conosciamo. Sic transit gloria mundi, così svanisce la gloria terrena.
Ovviamente per il leader leghista non è ancora scattato il de profundis ma è innegabile che il consenso granitico del quale una volta godeva presso il suo elettorato e soprattutto presso i suoi colonnelli sul territorio si sia notevolmente affievolito. Complici non solo i numeri (14 punti persi in un paio d’anni) ma anche una gestione del partito che – per usare un eufemismo – da tempo fa storcere il naso a molti. E non esattamente a gente che non conta.
IL DOPPIO REGISTRO
Che il “cerchio magico salviniano” e i nuovi innesti che hanno scalato i vertici assumendo ruoli di potere in pochissimo tempo (leggi i vari Durigon, Siri ma anche lo stesso Claudio Borghi col suo oltranzismo no euro, no Europa, no green pass …) e che poco hanno a che vedere con la Lega del nord, dei territori e della militanza siano percepiti non da oggi come un corpo estraneo – o quantomeno con sospetto – è cosa nota.
Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è l’esasperazione della dicotomia Lega di lotta (delle piazze coi no vax ma anche dei blitz nelle commissioni come quella di Borghi che ha tentanto di bloccare il green pass) e di governo (rappresentata dai ministri e dai governatori). All’ormai collaudato duo Zaia- Fedriga, da tempo su posizioni quantomeno dubbiose per la (voluta) ambiguità di Salvini in tema di vaccini e per la manifesta contrarietà all’estensione del certificato verde e lontani anni luce da toni esasperati e intemerate varie, si sono aggiunti anche i più defilati Attilio Fontana, presidente della Lombardia e quello della Provincia autonoma di Trento Maurizio Fugatti.
Tutti accomunati da un solo obiettivo: sconfiggere la pandemia, e per farlo occorre vaccinarsi. “Difendere con grandissimo vigore la vaccinazione che trova fondamento nei numeri perché da quando abbiamo vaccinato i numeri della nostra regione sono eccellenti”, ha dichiarato Fontana, ricalcando le parole del collega e presidente della Conferenza delle regioni Fedriga, convinto che il pass sia uno strumento per garantire più libertà, “Serve a tenere aperto e non a chiudere”.
Bocciata nei territori – dove sindaci e amministratori locali a vario livello hanno dovuto fronteggiare la pandemia in prima fila – anche la proposta del leader leghista di rendere gratuiti i tamponi, sia per un calcolo economico sia per evitare che la gratuità possa rappresentare una scappatoia no-Vax. Non siamo al redde rationem ma una scollatura fra il vertice e la base c’è eccome.