Salvini parla da ministro degli Esteri ma confonde la Serbia e il Kosovo

Salvini sogna la diplomazia internazionale ma confonde il Kosovo con la Serbia e dimentica che guida le Infrastrutture

Salvini parla da ministro degli Esteri ma confonde la Serbia e il Kosovo

Se fosse per lui, il Kosovo sarebbe ancora un pezzo di Serbia, la Crimea legittimamente russa, la geopolitica un reality show da congresso leghista. Matteo Salvini, che sulla carta è ministro delle Infrastrutture, continua a sognare i palazzi della diplomazia e a improvvisarsi statista d’altri tempi. Peccato che nel frattempo il sistema ferroviario italiano arranchi, i treni si fermino per guasti elettrici, e il Pnrr, quello vero, quello che dovrebbe modernizzare le infrastrutture, resti incagliato tra conferenze stampa e proclami vuoti.

La geopolitica da bar di un ministro fuori binario

Durante il congresso della Lega a Firenze, il vicepremier ha dichiarato che “una minoranza cristiana sta resistendo e combattendo in Serbia”. Non era una svista. Era propaganda. Il genere che ricalca fedelmente le narrazioni di Vladimir Putin e dell’estrema destra europea: l’Occidente brutale, i cristiani perseguitati, le bombe cattive della Nato. Tutto già sentito. Tutto già smentito dai fatti. Ma evidentemente utile per provare a guadagnare due titoli sui giornali e qualche applauso nei convegni con bandiere balcaniche.

Il fatto che la “minoranza cristiana” a cui si riferisce Salvini viva in Kosovo, non in Serbia, è il dettaglio minore. Il problema vero, come ha notato Pagella Politica, è che il suo discorso ricalca parola per parola quello usato dai nostalgici della ex Jugoslavia, dai nazionalisti serbi, dai propagandisti del Cremlino. E non è una novità: già nel 2014, quando Mosca annetteva la Crimea, Salvini si chiedeva su Twitter perché l’Europa fosse tanto indignata. In fondo – sosteneva – anche Bosnia e Kosovo avevano avuto l’indipendenza grazie alle bombe. Un copia-incolla geopolitico che dimentica la storia e scavalca il presente.

Per convenienza. Perché la Lega, da Bossi in poi, ha sempre avuto una strana fascinazione per la Serbia. Era il 1999 quando il Senatùr volava a Belgrado per incontrare Milošević, il macellaio dei Balcani, dichiarando che i veri destabilizzatori erano gli albanesi, non i serbi. Anche allora, la favola era la stessa: i buoni cristiani contro i musulmani cattivi. Una semplificazione tossica, funzionale a un’idea d’Europa che assomiglia più a un fortino che a un progetto comune.

Salvini continua su quella linea. Oggi, con la disinvoltura del politico che non deve rendere conto a nessuno, rilancia teorie vecchie, ambigue e pericolose. Parla di religione dove c’è nazionalismo, di martiri dove ci sono tensioni etniche, di oppressione dove c’è – semmai – un processo delicato di costruzione statale, come quello del Kosovo. E intanto ignora – o finge di ignorare – che l’Italia riconosce il Kosovo come Stato sovrano dal 2008. Quindi? O il ministro ignora la politica estera del suo stesso governo, oppure finge di volerla riscrivere con la lingua della propaganda.

Mentre il Kosovo è in Europa, i treni no

Il tutto mentre il suo ministero arranca. Le infrastrutture italiane sono un campo minato. I treni regionali cadono a pezzi. Il ponte sullo Stretto è un progetto che resta sulla carta. Le opere del Pnrr vanno a rilento, e la transizione ecologica dei trasporti è una parola vuota nei documenti ufficiali. Ma Salvini è troppo impegnato a evocare guerre del secolo scorso per accorgersene. E mentre si lancia in difese grottesche dei serbi ortodossi “assediati” in una terra che chiama ancora Serbia, finge di dimenticare che il vero assedio, oggi, lo subisce la verità.

In un Paese normale, un ministro delle Infrastrutture si occuperebbe di far arrivare i treni in orario. Salvini, invece, preferisce fare il ministro degli Esteri in surrogato, il portavoce delle destre identitarie europee, il testimonial di un nazionalismo a buon mercato che odora di naftalina. Ma se vuole giocare alla geopolitica, almeno impari la geografia: il Kosovo non è la Serbia, la religione non è un’arma, la storia non è un meme da rilanciare nei comizi.