Salario minimo e settimana corta, Meloni rinnega se stessa

Dall'opposizione Meloni criticava il rinvio in commissione delle proposte della minoranza. Lo stesso metodo usato oggi dalla sua maggioranza.

Salario minimo e settimana corta, Meloni rinnega se stessa

Giorgia Meloni contro Giorgia Meloni. La coerenza di un tempo si perde nei meandri del Palazzo. L’analisi di Pagella Politica non lascia spazio a dubbi: la presidente del Consiglio fa oggi esattamente quello che contestava con foga quando era all’opposizione. E il punto non è solo il ribaltamento di posizioni: le stesse tecniche che un tempo criticava vengono ora brandite come strumenti di governo.

Meloni dall’opposizione al governo: il ribaltamento delle posizioni

Era il 25 ottobre 2016 quando Meloni, allora leader di un minuscolo Fratelli d’Italia, prendeva la parola alla Camera per denunciare lo stratagemma con cui le maggioranze di turno aggiravano il confronto sulle proposte delle opposizioni: il rinvio in commissione. Uno strumento perfettamente legale, certo, ma utile a spostare le discussioni su un binario morto. Meloni parlava di una “roba che deve finire”, rivendicando il diritto dell’opposizione a vedere almeno discusse le proprie proposte. Oggi, alla guida del governo, la sua maggioranza usa lo stesso identico meccanismo per svuotare il dibattito su temi fondamentali come il salario minimo e la settimana lavorativa corta.

Il caso più recente riguarda la proposta di legge sulla settimana di quattro giorni lavorativi a parità di salario, presentata da Partito democratico, Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi-Sinistra. In commissione, il centrodestra ha tentato di cancellarla con un emendamento. Quando l’opposizione ha chiesto di discuterla almeno in Aula, la maggioranza ha fatto un passo indietro e ha lasciato che arrivasse alla Camera. Ma il 12 febbraio Fratelli d’Italia e alleati hanno chiesto di rinviarla in commissione, giustificandosi con la necessità di “approfondire le coperture finanziarie”. La stessa scusa utilizzata per il salario minimo. A ottobre, il governo aveva affidato al Cnel il compito di studiare la questione, e il Cnel – guidato da Renato Brunetta, ex parlamentare e ministro di Forza Italia – aveva prontamente decretato che la misura non era necessaria. Risultato? Il testo è stato svuotato, trasformato in una delega al governo che rimanderà tutto di almeno due anni.

Una coerenza persa nei meccanismi del potere

Dov’è la Meloni che parlava di diritti delle opposizioni? Nel 2016 dichiarava che le opposizioni avevano diritto a discutere almeno il 20% dei provvedimenti in Aula. Oggi, quei provvedimenti vengono neutralizzati con procedure che contestava quando la sfavorivano. C’è di più: mentre il governo Meloni blocca il salario minimo, affossando l’unico strumento che potrebbe dare respiro a milioni di lavoratori poveri e precari, difende con forza il taglio del cuneo fiscale, misura che, senza un salario garantito, finisce per essere un regalo alle aziende più che ai lavoratori. Mentre rinvia la settimana corta “per approfondimenti”, esalta aziende come SACE – controllata dal Ministero dell’Economia – che la stanno già sperimentando. La contraddizione si fa sistema.

Il problema non è che Giorgia Meloni abbia cambiato idea. Il problema è che il potere ha reso irrilevante la coerenza. Ciò che era ingiusto quando era all’opposizione diventa necessario ora che è al governo. E il meccanismo non cambia: si governa eludendo il confronto, spostando le decisioni sempre un passo più in là, aspettando che l’interesse pubblico si spenga. Nel frattempo, l’Italia resta immobile, ostaggio di una maggioranza che, pur di non dire no apertamente a misure popolari, preferisce annegare il dibattito nel nulla. Esattamente ciò che la vecchia Meloni avrebbe definito un “oltraggio alla democrazia”.