di Vittorio Pezzuto
Fateci caso. L’ultima campagna elettorale è stata la più rispettosa dell’ambiente e della quiete dei cittadini. Nessuna strisciata di manifesti abusivi stratificati a decine uno sull’altro, i marciapiedi sgombri di volantini sparpagliati per terra, pochissime lettere a intasare la nostra cassetta delle poste (quella del Cav. che si impegnava alla restituzione dell’Imu è stata spedita solo nelle tre circoscrizioni ritenute più in bilico), piazze sgombre da fastidiosi palchi comizianti. Un merito certamente ascrivibile all’aborrito Porcellum, dal momento che a sbattersi per il voto erano soltanto i candidati collocati in lista nella zona grigia dell’incertezza (che quelli sicuri di farcela e i trombati senza speranza avevano ben pochi stimoli all’azione militante). Un’altra concretissima ragione ha però convinto i partiti tradizionali a puntare tutte le loro fiches sul tavolo dei dibattiti televisivi e radiofonici, trasfigurando la presenza fisica dei loro leader in ologrammi buoni per ogni fascia oraria. «Cherchez l’argent» borbotterebbe l’ispettore Maigret, e anche stavolta farebbe centro: i partiti sono rimasti senza soldi e la pressione dell’opinione pubblica li costringe a risparmiare a tutto vapore. A luglio dell’anno scorso si è infatti abbattuta sui loro conti correnti la mannaia della legge n. 96 che ha dimezzato (da 182 a 91 milioni di euro) la cospicua dotazione del finanziamento pubblico. Soldi elargiti sotto la truffaldina dicitura “rimborsi elettorali” e che a tutto servono meno che a pagare le campagne elettorali, nessuna pezza giustificativa dovendo esser presentata per la loro puntuale riscossione.
Abbozzi di trasparenza
A differenza del passato, a poterne godere sono però soltanto i partiti che hanno ottenuto almeno il due per cento dei voti o un parlamentare. La nuova legge ha imposto inoltre alcune misure minime di trasparenza: una commissione composta da cinque magistrati (tre della Corte dei Conti, uno del Consiglio di Stato e uno della Corte di Cassazione) è stata istituita per vigilare sui bilanci dei partiti; tutti i tesorieri devono pubblicare redditi e patrimonio, anche dei familiari; le liste composte per più di due terzi da candidati dello stesso sesso subiscono un’ulteriore riduzione del cinque per cento dei rimborsi. Insomma, per i tesorieri inizia a essere davvero una vitaccia. E già uno se li immagina ogni sera in preghiera affinché la legislatura muoia di morte naturale, non essendo nemmeno più possibile contare come prima sull’erogazione delle cinque tranche annuali anche nel caso di una sua interruzione traumatica.
Invece no, fermi tutti. Nel Paese dei cavilli, delle radici quadre e delle tavole rotonde la legge ha lasciato spazio a una speranza di segno opposto: un nuovo voto a luglio o comunque entro la fine dell’anno. Solo in questo caso, infatti, potrebbero legittimamente disporre di ben due finanziamenti annuali per il 2013. Un colpaccio davvero insperato, che servirebbe a far tornare in ordine i conti. Anche perché, a guardare meglio la nuova disciplina del finanziamento pubblico, non è affatto detto che tutti i partiti riescano a toccare l’intera posta messa a bilancio.
Questa adesso si divide infatti in due grandi cespiti: il 70 per cento delle risorse (pari a 63.700.000 euro) viene comunque erogato come sostegno e contributo all’attività politica svolta. Il restante 30 per cento (pari a 27.300.000 euro) può invece essere concesso a titolo di cofinanziamento solo qualora i tesorieri riescano a dimostrare che una cifra analoga è stata loro elargita da soggetti privati. Per facilitarli nel compito interviene l’articolo 7 della riforma. La detrazione di imposta per le erogazioni liberali a favore di partiti e movimenti rappresentati nelle istituzioni – per importi compresi fra 50 e 10.000 euro annui effettuati mediante versamento bancario o postale – è stata infatti innalzata dal 19 al 24 per cento per l’anno in corso e salirà ulteriormente al 26 per cento per tutti gli anni successivi. Un meccanismo che premia in maniera significativa tanto il singolo contribuente (ad esempio un deputato che accettando la candidatura si sia impegnato formalmente a versare una quota della sua indennità di carica) quanto lo stesso partito beneficiato, che per ogni euro ricevuto matura infatti per legge il diritto a ricevere dallo Stato altri 50 centesimi come contributo annuo volto a finanziare la sua attività politica. Un meccanismo forse tortuoso ma ben congeniato: a conti fatti, a rimetterci è ancora una volta soltanto lo Stato.
Vita dura per gli esclusi
Restano invece a becco asciutto tutti i partiti e movimenti politici rimasti fuori dalle istituzioni. Perduta la partita decisiva delle elezioni, questi precipitano così dalla Champions League del Parlamento fin nell’abisso dei tornei amatoriali. Tanto che l’articolo 8 della riforma li esclude addirittura dalla possibilità di accedere alle tariffe agevolate che gli Enti locali possono decidere di applicare per l’affitto di strutture utili a riunioni, assemblee e convegni. Più che un intento punitivo, una vera e propria strategia studiata a tavolino dal legislatore per limitare al massimo l’attività politica delle forze estranee al sistema partitocratico.
Ai tesorieri dei partiti rimasti fuori dalla cittadella del Palazzo non resta quindi che indossare mestamente il saio del Fra Galdino di manzoniana memoria e rassegnarsi a una faticosa attività peripatetica nella speranza di incrociare sul loro cammino sostenitori che siano davvero disinteressati.
Un compito arduo, se solo si ricorda il celebre aforisma di Ennio Flaiano: «Gli italiani corrono sempre in soccorso del vincitore».