Devastazioni, incendi, violenze. A marzo, appena esplosa la pandemia, le carceri si trasformatono in una polveriera. I detenuti, accusando il ministro della giustizia Alfonso Bonafede di condannarli a morte lasciandoli dietro alle sbarre mentre il Covid-19 dilagava, misero a ferro e fuoco le strutture penitenziarie. Rivolte in cui si registrarono anche alcune vittime, che fecero temere che la situazione potesse sfuggire di mano, ma che vennero sedate, gestendo l’emergenza senza che le carceri si trasformassero in un lazzaretto. E ora, al culmine di un’inchiesta aperta dalla Procura di Roma, la polizia penitenziaria ha eseguito nove misure cautelari per la rivolta a Rebibbia. Sotto accusa i detenuti coinvolti nei disordini, accusati di devastazione, saccheggio, sequestro di persona, lesioni e resistenza a pubblico ufficiale.
IL PUNTO. Nelle scorse settimane i pm Eugenio Albamonte e Francesco Cascini hanno notificato l’atto di conclusione delle indagini preliminari a 55 persone. Nelle indagini determinanti sono state le immagini catturate dai sistemi di videosorveglianza, che hanno immortalato le varie fasi degli scontri avvenuti tra il 7 e il 9 marzo nel carcere di Rebibbia, in cui rimase anche ferito un ispettore della polizia penitenziaria, a cui è stata assegnata una prognosi di 40 giorni. Una sommossa scoppiata nel reparto G11 e poi estesasi altri settori. Ora gli arresti, a carico di detenuti di età compresa tra i 23 e i 41 anni.
“Grazie alle indagini della polizia penitenziaria sono state ricostruite le responsabilità individuali con la contestazione dei reati di devastazione e saccheggio in carcere. Il Covid è un problema ma qui si parla di condotte che vanno oltre qualsiasi protesta”, ha affermato il procuratore capo Michele Prestipino (nella foto). Gli inquirenti non hanno però trovato al momento elementi che dimostrino una “regia comune” tra le rivolte avvenute a Roma e quelle esplose in contemporanea in altri istituti del Paese, da Milano a Palermo, anche se in tal senso gli accertamenti proseguono. Più nello specifico, come specifica il gip Bernadette Nicotra, quattro dei nove detenuti destinatari delle misure cautelari hanno “ideato” e “promosso” la rivolta, dopo aver picchiato un agente ed essersi impadroniti delle chiavi per unirsi agli altri detenuti e coinvolgerli.
“È ampiamente provato – evidenzia il giudice – che nel reparto G 11 e con propagazione anche in altri reparti sono state poste in essere un numero rilevante di condotte di danneggiamento che hanno prodotto un danno indiscriminato e di notevolissima gravità pari a circa 75mila euro alle strutture di proprietà del Ministero della giustizia che tali condotte sono riconducibili perlopiù alle azioni tumultuose degli attuali indagati”. Chiuse inoltre a fine ottobre le indagini e chiesto il rinvio a giudizio di 21 detenuti, tutti accusati di devastazione, anche per la rivolta nel carcere di Frosinone. Gli imputati sono ritenuti responsabili della distruzione di suppellettili e arredi, di aver incendiato cassette elettriche e indumenti e di aver distrutto le telecamere di sorveglianza.