Per capire il peso che riveste il “salario minimo” nella proposta presentata da Tommaso Nannicini insieme a tutti i senatori dem della commissione Lavoro, basta partire da un dato incontrovertibile: le parole “salario minimo” – che pure danno il nome al disegno di legge, guanto di sfida lanciato al Movimento cinque stelle – sono contenute due volte. Punto. Un po’ ardito pensare a una rivoluzione del sistema retributivo con un disegno di legge così esiguo. Ma il dettaglio, a ben vedere, non deve meravigliare. Perché il salario minimo – in questo in assoluta e grottesca coerenza con l’articolato del ddl – è talmente minimo da non esserci. Impossibile? Non per il Pd.
Dopo la fallimentare proposta di Mauro Laus che tra l’altro prevedeva, fissando 9 euro netti di salario minimo, un aumento di costi per le imprese di 34 miliardi di euro, il nuovo corso di Zingaretti, dopo un’attenta analisi con sindacati e associazioni di impresa, ha portato appunto alla proposta di Nannicini. E cosa prevede? Nulla. Nel primo articolo del ddl si legge: “è istituito il salario minimo di garanzia quale trattamento economico minimo che il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore a cui si applica la disciplina del lavoro subordinato”.
Bene, si dirà. Qual è, in soldoni, la cifra? Sarà fissato “secondo gli importi e le modalità determinati dalla Commissione di cui all’articolo 2”. In altre parole, dunque, il ddl sul salario minimo non fissa il salario minimo. Rinviando la decisione – si legge per l’appunto all’articolo 2 – a una “commissione paritetica per la rappresentanza e la contrattazione collettiva”. Ma il bello ancora deve arrivare: la commissione, infatti, dovrebbe essere istituita presso “il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro”.
Quello stesso Cnel che i renziani, di cui Nannicini è autorevole esponente, volevano abolire e che, a onor del vero, potrebbe avere vita breve considerando che lo stesso intento nutrono i Cinque stelle, tanto da aver presentato in tal senso una proposta di riforma costituzionale. Non solo: a presiedere la commissione dovrebbe essere il numero uno del Cnel, quello stesso Tiziano Treu che, prima di assumere quest’incarico, aveva lui per primo firmato a favore della riforma Boschi e, dunque, dell’abolizione dell’ente che oggi presiede. Un paradosso cubico.
Ma non è tutto. Perché oltre ad essere grottesco, il ddl potrebbe avere anche esiti pericolosi, come spiegano fonti M5S. Oggi, infatti, abbiamo quasi il 12% dei lavoratori dipendenti con retribuzioni inferiori ai minimi contrattuali. Non fissando un minimo, come appunto non-fa il ddl Nannicini, quella percentuale è destinata a restare tale o, peggio, a salire. Oggi, infatti, ci sono contratti nazionali firmati dai sindacati e dalle associazioni datoriali che prevedono minimi tabellari di 4 o euro lordi all’ora, di gran lunga inferiori ai 9 euro lordi proposti dai Cinque stelle col ddl Catalfo.
Lasciando le cose come stanno, il problema resta integralmente col rischio che peggiori, a meno che – ipotesi a dir poco fantascientifica – che un’azienda sua sponte non fissi un minimo salariale più alto di quanto sia oggi. Ma non è finita qui. Come riconosciuto da un istituto super partes come l’Istat in audizione in commissione Lavoro lo scorso 13 marzo, con la fissazione di un salario minimo orario a 9 euro lordi all’ora, quasi 3 milioni di lavoratori avranno un aumento di retribuzione media annua di 1.073 euro. Cifra ovviamente che dovremmo dimenticarci con il ddl Nannicini. Resta, però, la domanda: perché avanzare una proposta senza arte né parte? Una possibile risposta, ahinoi, la immaginiamo. E non fa onore al “nuovo” corso del Pd.