Si chiude l’era di Carlo Fuortes e inizia quella di Roberto Sergio alla guida della Rai. Il cda di Viale Mazzini, infatti, ha dato il via libera definitivo al manager con tre voti favorevoli, ossia quello della presidente Marinella Soldi e dei consiglieri vicini al centrodestra Simona Agnes e Igor De Biasio. Contraria Francesca Bria, ritenuta vicina al Pd, mentre si sono astenuti Alessandro Di Majo, vicino ai Cinque Stelle, e Riccardo Laganà che figura tra i dipendenti Rai. A risultare decisiva è stata così la preferenza accordata dal presidente del servizio pubblico a Sergio visto che i due astenuti vengono formalmente conteggiati tra i ‘no’ e in caso di parità il voto del vertice di viale Mazzini vale doppio.
Se sull’esito del voto non c’erano grandi dubbi, a fare rumore è l’astensione del Movimento 5 Stelle che sembra incomprensibile. Vero è che questa era stata ‘suggerita’ dal leader Giuseppe Conte ma si fa davvero fatica a capire perché non si è scelto di dire un ‘no’ secco per una nomina voluta fortemente da Palazzo Chigi e che sembra il preludio a una gestione della Rai ancor meno morbida nei fronti dei 5 Stelle rispetto a quella di Fuortes. Con un’intervista alla Stampa, il vertice dei pentastellati aveva di fatto anticipato il voto di Di Majo: “(Come votare, ndr) lo deciderà lui, in scienza e coscienza. Se fossi al suo posto sospenderei il giudizio in attesa di capire meglio i nuovi orientamenti”.
Evidentemente quanto sta trapelando in questi giorni non sembra aver convinto Conte e il Movimento 5 Stelle a prendere una posizione netta. Eppure tra voci insistenti che hanno messo in discussione il futuro della trasmissione Report guidata da Sigfrido Ranucci – successivamente smentite – e i nomi che circolano per le nomine di punta – telegiornali inclusi dove si vocifera di Gian Marco Chiocci al Tg1 – che stravolgeranno il servizio pubblico tanto che più di qualcuno ha già ribattezzato la Rai in ‘Tele-Meloni’, tanti si aspettavano qualcosa di più.
Ciò non toglie che l’operato di Sergio non si può giudicare in anticipo, del resto tanti scommettono sulle sue capacità manageriali in quanto interno e da sempre attento al ruolo del servizio pubblico, ma è evidente che la sua nomina è frutto di un potere politico che mai come oggi è deciso a costruire un servizio pubblico su misura. Insomma, come ha spiegato a La Notizia il giornalista Giovanni Valentini, il problema non è sul nome di Sergio ma sul modo con cui è stato scelto “che essendo sbagliato potrebbe finire per condizionarne l’attività”.
Appare chiaro che c’è qualcosa che non va nell’attuale legge che disciplina la Rai. Proprio per questo Conte, nella stessa intervista, ha lanciato “un appello alle forze di maggioranza e di opposizione” al fine di dare il via agli “Stati Generali della tv per programmare una riforma che possa definire più compiutamente (aggiornandola) la missione del servizio pubblico”. “La Rai va ripensata nella governance e nella struttura, per renderla più competitiva rispetto alle piattaforme televisive che la stanno spingendo fuori dal mercato”, aggiungendo anche che “la riforma partirebbe dalla prossima legislatura. Questa maggioranza sta facendo semplicemente quello che hanno fatto tutti prima di lei. I partiti dentro o fuori? Completamente fuori”.
Si tratta di parole di buon senso per un problema noto ma quello che stona è che a pronunciarle è Conte che ha guidato due governi, quello gialloverde e quello giallorosso, senza effettuare quella riforma della Rai che avrebbe potuto portare a casa lui stesso. E chiederlo ora dall’opposizione, per giunta mentre è in corso l’occupazione ‘militare’ di viale Mazzini che proprio la mancata riforma sta permettendo, non sembra essere il modo migliore per riuscirci ma soltanto l’ennesima occasione mancata.