“Meglio un compromesso che nessuna legge”, così se ne esce sul ddl Zan il patron di Italia Viva, l’ex democristiano ed ex rottamatore Matteo Renzi. Dietro a questo (periodico) ristorno di democristianità c’è però il fondato sospetto che ci sia ben altro e non sfugge certamente l’asse con Matteo Salvini che sul ddl Zan (leggi l’articolo) – e non solo – si è costituito da tempo. La sintonia dei due Mattei, infatti, è sempre più evidente e, come dire, strutturata tanto da far pensare a qualcosa d’altro, forse una alleanza tattica per acchiappare qualche poltrona in più che è l’unica fissazione del Matteo dell’Arno.
Il casus belli è, manco a farlo a posta, l’identità di genere. Infatti Iv vuole recuperare un’altra definizione, quella contenuta nel ddl Scalfarotto che si riferiva a concetti più generali come quelli di transfobia ed omofobia. Naturalmente Matteo il Padano è corso subito in soccorso del toscano, spiegando che lui è per il “libbero amore” – ci mancherebbe – ma che sull’ideologia bisogna frenare e che sì, insomma, è meglio non scendere nei particolari, nelle definizioni, nella filosofia perché la “ggente”, di cui lui è paladino e indomito alfiere, queste sottigliezze con la semantica strutturata non le capisce e vuole concetti più semplici, più abbordabili, più pecorecci.
Dietro questa finta tiritera si nasconde, naturalmente, il tentativo di indebolire ed annacquare il contenuto del ddl Zan. Ma come scordare che solo a novembre scorso Renzi d’Arabia elogiava il “testo equilibrato” in Aula? E poi dobbiamo tornare su quella affascinante disciplina filosofica che è la fenomenologia di Renzi. Ma chi è esattamente questo signore che sembra uscito dalle tavole novecentesche del Corriere dei piccoli? Esordisce – giova ricordarlo – come “rottamatore” e cioè come populista da “bar dell’Arno” che ha attaccato tutta la classe dirigente del Pd solo per fregare loro poltrone e posti in nome del rinnovamento generazionale.
E poiché in Italia il populismo funziona sempre, ecco che il furbacchione ha buttato giù in una botta sola tutti gli ostacoli che si frapponevano tra lui e il potere, risparmiando la fatica della gavetta e, soprattutto, di quella pratica così noiosa che sono le elezioni. Eccolo quindi essere premier senza neppure sapere dove si entra a Montecitorio, e infatti la prima volta ci si perse dentro. Poi, una volta conquistata la “patata d’oro”, fece il finto tonto e si trasformò in un compito uomo di potere dell’establishment tutto giacca e cravatta. Così, lui che è stato il primo populista dell’epoca moderna, ha cominciato a rifilare l’epiteto, oltretutto secondo lui dispregiativo, a destra ma soprattutto a manca, colpendo i Cinque Stelle che appunto praticavano – secondo lui – l’arte del populismo.
Ma Renzi, attenzione, ha solo un paio di marce e sono tutte utilizzate come acchiappapoltrone e quindi non ci mette nulla come il mago Zurlì a trasformarsi di nuovo – appena cambierà il vento -, in populista e poi ancora democristiano. L’importante è – democristianamente – acchiappare qualcosa per sé e la famiglia (politica).