di Peppino Caldarola
In assenza di delizia, la croce che deve portare il Pd ha due nomi: Letta e Renzi. Sono croci diverse. Il primo è un figlio prediletto mandato in terra di nessuno per prendere tempo e dare all’esercito dei democrat la possibilità di riorganizzarsi dopo la Caporetto del generale Bersani. Il secondo è il figlio scapestrato che molti vedrebbero volentieri lontano e altri vorrebbero a capo della famiglia dopo aver messo la testa a posto. Letta non sta dando molte soddisfazioni. Il governo procede per rinvii, sembra prigioniero del Pdl e dall’ossessivo assedio di Brunetta, ma resta l’unica ipotesi in campo visto che altre maggioranze non ci sono e nessuno sa che cosa farebbe il capo dello Stato in caso di crisi della strana coalizione. Nel Pd non sono pochi quelli che vedrebbero bene Letta a capo di un nuovo centro-sinistra quando l’alleanza con il PdL si concluderà. C’è l’obiezione che è difficile raccogliere voti con la stessa personalità che avendo governato con il partito di Berlusconi sarebbe poco credibile nel fare una campagna elettorale contro il centro-destra. Ma sono obiezioni a cui molti nel Pd rispondono con un’alzata di spalle. Perché la posta in gioco è un’altra: come fermare Renzi?
Candidature reali o subliminali
È lui l’ossessione principale. Dopo le settimane terrificanti delle brutte figure bersaniane, sembrava che nel Pd, compresi i rottamati, si fosse fatta largo l’ipotesi di affidarsi a Renzi. Il sindaco di Firenze aveva avviato anche una tattica di larghe intese interne con lo sbocciare dell’amor fatuo per D’Alema, il duetto con Veltroni, l’autocritica sulla rottamazione affidata persino a un libro che ne dichiarava il superamento. È durato poco. Mentre Renzi si muoveva a destra e a manca, il fronte sinistra del Pd entrava in ebollizione. Per contrastare la vittoria di Renzi, emergevano candidature reali o subliminali. Dapprima Cuperlo, poi Fassina, di lato Pittella, di spalle Barca, scostato da tutti Civati. Mentre i liberal mostravano un solo leader (Renzi), la sinistra ex ds li moltiplicava come i pani e i pesci senza sfamare alcuno.
Questa battaglia era ed è fondamentalmente animata dall’unico segretario di sinistra che ha dato le dimissioni per finta. Bersani, infatti, non ha mai mollato l’osso e, vendicativo come Prodi, ha fatto sua la missione di contrastare Renzi. Il sindaco intanto si è crogiolato nel suo gioco preferito (e alla lunga logorante) fatto di annunci e smentite, di regole da non mutare e di regole da riscrivere “ad usum delphini”. Galli della Loggia sul Corriere della Sera gli ha consigliato di lasciar perdere il Pd, di farsi una ditta sua tanto il Pd non avendo candidati premier a lui si sarebbe rivolto nel momento del voto. Renzi non gli ha riposto, il che vuol dire che non gli ha detto “si” ma neppure “no”.
Sussulto leninista
Chi ha dubbi su Renzi solleva tre questioni: a) su nessun dossier della crisi italiana si conosce l’opinione del sindaco di Firenze, cioè quel “qui e ora” che dovrebbe essere il vademecum di ogni governante costretto a misurarsi con la tempesta; b) nessuno sa che partito vuole impiantare. Lui stesso ha alluso a un ruolo servente del partito, un vero e proprio taxi da prendere per governare e da smontare un minuto dopo; c) la sua squadra di governo appare circoscritta a un piccolo nucleo fiorentino. Renzi a nessuna di queste obiezioni dà importanza. C’è un sussulto leninista in ogni new entry della politica italiana. Come Grillo, Renzi pensa a guadagnare il potere e rimanda al dopo le spiegazioni. I suoi avversari interni hanno così buon gioco nel sollevare obiezioni e paure sulla sua ascesa e nel tentare di comporre un fronte composito che lo blocchi o lo condizioni. È, tuttavia, un’impresa a perdere. Nel doppio senso: che difficilmente riusciranno a fermare il sindaco di Firenze e che nel caso riuscissero si troverebbero privi di leadership generale. Renzi lo sa e sa che quel “dopo di me il diluvio” è la sua vera carta vincente. Ma la battaglia nel Pd sarà sempre dura, incomprensibile, defatigante. Tutti quelli che hanno tuonato contro la politica forse si accorgeranno che il problema italiano non è stato la troppa politica ma la troppo poca, fatta per giunta male. Così che al termine del ciclo personale di Berlusconi, l’unica alternativa è un altro ciclo personale. Con la sinistra che a quasi tre decenni dalla Bolognina scopre di essere ancora figlia o nipote di un dio minore, cioè incapace di dare un leader al Paese.