Se sul palcoscenico barocco che ospita la folla di attori o aspiranti tali che interpretano ruoli nella commedia Il Governo dei migliori un’eventuale candidatura di Mario Draghi al Quirinale viene narrata come la sintesi che metterebbe tutti d’accordo, dietro le quinte, tra vestiti di scena che non entrano, attacchi di panico, pezzi di copione sparsi qua e là e camerini troppo piccoli per contenere l’imponente corpo di ballo, i toni sono decisamente diversi e quelli che davanti al pubblico di giornalisti accreditati in visibilio sono i principali cantori del Supermario, svelano nell’ombra i loro dubbi e le loro paure.
Perché se è evidente anche a un bambino che una salita al Colle del premier romperebbe le uova nel paniere un po’ a tutti, nessuno escluso, è altrettanto evidente che non tutti i panieri sono uguali. A votare non vuole andare nessuno, soprattutto chi le urne le utilizza ogni due giorni come minaccia o merce di scambio: con il taglio dei parlamentari saranno in 345 tra deputati e senatori a doversi trovare una nuova occupazione.
PRIMUM VIVERE. Sono numeri che mettono i brividi a tutti, anche a quei partiti che le elezioni aspirano a vincerle, ma soprattutto sono numeri che blindano la legislatura fino alla sua naturale scadenza, perché molti di quei 345 sanno bene di essere all’ultimo giro e non hanno alcuna intenzione di rinunciare a neanche una delle laute mensilità che gli spettano. C’era una volta la politica. L’unico che si oppone al Draghi presidentissimo quasi a viso aperto è Silvio Berlusconi, che probabilmente spera di poter mettere sul tavolo un pirotecnico passo indietro; ma anche quella è un’arma spuntata: nei corridoi intorno al Transatlantico nuovamente chiuso in vista del 24 gennaio, data dell’inizio delle votazioni, nessuno è disposto a scommettere un euro sul fatto che la prossima first lady avrà 32 anni.
Chi invece continua ad auto-intestarsi Draghi come risultato di una machiavellica manovra politica partorita sulla via dei babbi tra Riyad e Rignano sull’Arno, è oggi il vero grande nemico della possibile promozione del premier a Capo dello Stato. Sì, sembra un paradosso, ma Matteo Renzi e i suoi fuoriusciti travestiti da Draghi-Boys vedono l’ipotesi come una specie di incubo. La cosa che più li spaventa è di scomparire politicamente con un anno di anticipo rispetto alla primavera del fatidico 2023, quando saranno costretti a contare voti veri, non scranni parlamentari sottratti ad altri partiti.
E se alla fine l’attuale maggioranza dovesse convergere sul nome dell’ex presidente della Bce, i 44 voti dei renziani risulterebbero irrilevanti, sovrapponendosi perfettamente ai sondaggi. Un’irrilevanza che con molta probabilità si specchierebbe anche nell’esecutivo di fine legislatura, quel Governo tecnico guidato da Marta Cartabia o simili che lo stesso Draghi, nel ruolo di arbitro, imporrebbe ai partiti per mettere al sicuro i soldi del Pnrr e portare a termine la più travagliata delle legislature.
Insomma, una salita del premier al Quirinale segnerebbe la fine politica anticipata di Renzi e del suo cartello, un partito virtuale che esiste solo se può incidere sulle manovre di palazzo: su bandierine da piazzare, su leggi da affossare. Finite le manovre sarà costretto, suo malgrado, a rispettare quella promessa fatta agli italiani quel 29 dicembre del 2015.