di Nicoletta Appignani
“Assad non ha usato i gas”. Una rivelazione clamorosa, quella di Pierre Piccinin, l’insegnante belga compagno di prigionia di Domenico Quirico, il giornalista de “La Stampa” liberato domenica dopo essere stato tenuto in ostaggio per cinque mesi in Siria. Un periodo lungo, fatto di momenti difficili, continui spostamenti e tanta paura. Centocinquanta giorni terminati con il ritorno in patria e con una dichiarazione choc, resa alla vigilia di un attacco che sta spaccando l’opinione pubblica mondiale, e che porta già molte persone a farsi delle domande sulla posizione dell’Italia nella scacchiera internazionale. L’informazione, di cui l’insegnante si dice “certo”, sarebbe stata sentita durante una conversazione tra i ribelli, ascoltata attraverso una porta socchiusa. L’insegnante 40enne racconta che, quando lui e il giornalista italiano hanno appreso dell’intenzione degli Usa di intervenire militarmente in seguito all’uso, attribuito al regime, delle armi chimiche, “avevamo la testa in fiamme: eravamo prigionieri laggiù, bloccati con questa informazione e per noi era impossibile darla”. Quirico tuttavia si mostra molto più cauto e in qualche modo prende le distanze: “E’ folle dire che io sappia che non è stato Assad a usare i gas”, spiega a La Stampa. Il giornalista parla della conversazione, ascoltata appunto attraverso una porta socchiusa. Tre persone, di cui Quirico non conosce i nomi, parlavano in inglese via Skype. Uno di loro si era già presentato ai prigionieri come un generale dell’Esercito di liberazione siriano. Dell’uomo con lui e del loro interlocutore non si sa nulla. “In questa conversazione – prosegue la ricostruzione di Quirico – dicevano che l’operazione del gas nei due quartieri di Damasco era stata fatta dai ribelli come provocazione, per indurre l’Occidente a intervenire militarmente. E che secondo loro il numero dei morti era esagerato”. Una conversazione origliata attraverso una porta, non verificabile e quindi messa in dubbio dallo stesso Quirico, ma non per questo meno inquietante. Proprio perché destinata a inserirsi in uno scaricabarile, quello in Siria, nel quale nessuna responsabilità è stata ancora accertata.
Finte esecuzioni. Le terribili violenze all’inviato della Stampa
Due tentativi di fuga, due finte esecuzioni, ecco l’atroce punizione dei carcerieri, la vendetta per stroncare ogni velleità di insubordinazione. C’è stato anche questo, in quei cinque, lunghissimi mesi di prigionia di Domenico Quirico, l’inviato della Stampa rapito in Siria dai ribelli anti Assad. Ne parla il compagno di detenzione di Quirico, il professore belga Pierre Piccinin (nella foto), «giochi crudeli» li definisce: «Domenico ha subito due finte esecuzioni con una pistola», spiega. Questo perché «una volta, approfittando del momento della preghiera, ci siamo impossessati di due kalashnikov e siamo fuggiti nella campagna per due giorni. Poi ci hanno ripreso e siano stati puniti molto severamente». Violenze psicologiche dunque, ma anche fisiche. Un lungo incubo finito per fortuna nel migliore dei modi.