Sono passati quarant’anni ma l’omicidio di Mino Pecorelli resta un cold case. False piste investigative e processi conclusi con un nulla di fatto hanno reso tuttora impossibile scoprire l’identità di chi, il 20 marzo 1979, sparò quattro colpi all’indirizzo del giornalista e direttore di Osservatore politico in via Orazio, nel quartiere Prati. Ma qualcosa si sarebbe smossa negli ultimi tempi e ora la sorella Rosita Pecorelli, rappresentata dall’avvocato Valter Biscotti, chiede la riapertura del caso.
La mossa era già stata preannunciata nei giorni scorsi ma ieri è arrivato l’atto formale di denuncia, presentato personalmente, dalla donna e dal suo legale, verso le 11 di mattina al Procuratore Capo di Roma Giuseppe Pignatone. L’atto fa riferimento a nuovi elementi che sono emersi nel corso degli ultimi anni e che potrebbero condurre all’identificazione dell’arma usata per l’omicidio e, di conseguenza, a chi l’ha impugnata. Più nel dettaglio, la famiglia del giornalista chiede alla magistratura di effettuare degli accertamenti balistici su una pistola Beretta e su quattro silenziatori che furono sequestrati a Monza nel 1995 a un uomo, in passato membro di Avanguardia Nazionale, ma che non furono mai messe in relazione con il delitto avvenuto sedici anni prima.
Per questo è necessario, come si legge nell’istanza, effettuare il confronto tra la Beretta e i quattro proiettili che uccisero il direttore di Osservatore politico. Non si tratta di un’arma a caso perché già tre anni prima Vincenzo Vinciguerra, anch’esso ex estremista di destra, a colloquio con il giudice istruttore Guido Salvini aveva fatto proprio il nome di quell’uomo, afferemando che era colui che aveva in custodia la Beretta che causò la morte di Pecorelli. Pistola che potrebbe essere tuttora conservata nell’ufficio corpi di reato del tribunale di Monza in attesa di essere analizzata e, quindi, di dare la propria risposta al caso.
L’omicidio Pecorelli è uno dei misteri italiani irrisolti ed è stato al centro di diverse vicende giudiziarie. Il giornalista venne raggiunto da quattro colpi di pistola, tre alla schiena e uno in bocca, mentre stava salendo in auto dopo una giornata di lavoro in redazione. I colpi furono esplosi con una pistola calibro 7.65 munita di silenziatore compatibile con quella finita al centro dell’istanza della famiglia.
Per quei fatti fu aperta una prima inchiesta che coinvolse Massimo Carminati, Licio Gelli e Valerio Fiorevanti, ma che venne archiviata nel 1991 dal pubblico ministero Domenico Sica. Nel 1993, con le dichiarazioni del pentito Tommaso Buscetta vennero chiamati in causa, tra i tanti, Giulio Andreotti e Gaetano Badalamenti, e si aprì una nuova indagine. Il processo di primo grado, nel 2002, si concluse con la loro assoluzione mentre quello d’appello ribaltò tutto, condannandoli a 24 anni in quanto ritenuti i mandanti del delitto. Ma nel 2003 la Cassazione ribaltava ancora tutto, annullando la sentenza e assolvendo definitivamente i due imputati.