di Maria Giovanna Maglie
Come sempre gli capita, almeno ai miei occhi, Ingroia ha torto anche nel dichiarare acidamente che con Giulio Andreotti non sia morto l’andreottismo, perché credo piuttosto che sia morto da tempo l’andreottismo, e che personaggi come Andreotti nella vita politica italiana non ci siano più da tempo. Credo anche che non si debba far confusione tra andreottismo e inciucio democristiano attuale. Pensate che Andreotti ha tenuto un diario per tutta la vita, e che oggi si twitta tutti insieme appassionatamente. Nel 1974, praticamente preistoria, parlava a Oriana Fallaci, che per una volta non capì un granché, arroccata come si tenne in una paura snobistica e ostentata per il personaggio, quasi un’antesignana della “mascalzonata” del film di molti anni dopo, quel “Divo” improbabile e cupo che ora ci faranno sorbire come cerimonia degli addii. Diceva alla Fallaci: “Non ho cifrari segreti. Ho solo un diario che scrivo ogni sera che Dio manda in terra: mai meno di una cartellina. Se per caso una sera ho mal di testa e non scrivo, il giorno dopo riempio subito il vuoto. Così, se devo fare un articolo su qualcosa che accadde venti anni fa, consulto il mio diario e trovo cose che non troverei certo sui giornali. Certo, lo tengo in modo tale che nessuno può capirlo all’infuori di me e son cose che tengo solo per me. Quello nessuno deve leggerlo all’infuori di me. È proprio segreto, e spero che i miei figli lo brucino il giorno in cui morrò. Ma i miei fascicoli, creda, consistono solo in ritagli di giornale. Se vuole consultarne uno glielo do. Avanti, dica un nome. Lo dica”. Ha continuato a scrivere fino all’ultimo, e oggi più di qualche nome mi piacerebbe chiederglielo, anche per evitare il rischio delle sciocchezze che sentiremo in questi giorni sui presunti segreti che si sarebbe portato nella tomba.
Non vedo nessun andreottismo in giro, se guardo allo spettacolo deprimente della politica odierna, al premier di un partito che ha per vice quello del partito avversario, per dirne una. E’ vero che Andreotti sosteneva sereno “preferisco aggiungere che eliminare”, ma la sua lezione di metodo era il contrario, detto da mai democristiana e certo non da non andreottiana, era la separazione maniacale del problema concreto dalle sovrastrutture ideologiche e dagli orpelli passionali, qualcosa di più e di meglio della vocazione al basso compromesso tipico della Dc. In epoca di guerra fredda, in un Paese fazioso e ideologico, il metodo di Andreotti fu prezioso ma fu anche quello che gli valse la costruzione della demonizzazione, l’etichetta di cinico per sempre. I suoi avversari diventarono campioni della tesi sulla sua capacità e intelligenza, al servizio di cause sbagliate, ma la vulgata nacque all’interno del suo partito, nel quale, non credo di sbagliare, non volle mai incarichi e gradi, preferendo, altra anomalia, sempre incarichi di governo, e accettando così l’accusa definitiva e abbastanza incongrua di amare il potere fine a sé stesso. Fu invece un modo per avere le mani libere: abbracciare Graziani e varare governi appoggiati dal Pci, opporsi al centro-sinistra e poi tornare alla collaborazione col Psi, sentirsi campione della lealtà atlantica ma appoggiare l’azione corsara di Sigonella, nutrire dichiarata antipatia per Craxi ma organizzare il Caf.
L’andreottismo è stato un legame viscerale con la Chiesa, una visione vaticana della politica nazionale e ancora di più di quella estera e mediorientale, ma anche qui le etichette di supremazia ideologica, le sparata da dottrina sociale, non avevano spazio alcuno. Ho riletto una frase di Rosy Bindi: “Il compito dell’evangelizzazione da parte della chiesa è anche una forma di pedagogia alla cittadinanza, all’impegno civile e politico”. Giulio Andreotti non ancora malato, ancora in grado di fare le sue battute di spirito, avrebbe suggerito alla Rosy di mantenere la calma, lasciare alla Chiesa quel che è della Chiesa e non sentirsi la pasionaria di Dio, e dentro di sé avrebbe provato orrore.
Non vedo andreottismo in giro anche perché non vedo personaggi politici capaci di avere una vita e una dignità anche fuori dalla luce della ribalta. Negli anni dei processi l’imputato Andreotti continuò a giocare a carte e ai cavalli, andò alle udienze e prese appunti, scrisse libri e librini, come “I quattro del Gesù”, sul modernismo,una corrente di rinnovamento teologico che tra fine dell’Ottocento e inizi Novecento fu condannata e scomunicata, e anche “Un Gesuita in Cina”, dedicato a Matteo Ricci, il gesuita che andò in Cina e inventò un rapporto possibile tra due mondi e due religioni.
Oggi la Chiesa denuncia apertamente la mancanza di “una nuova generazione di politici cattolici”. Quando Benedetto XVI pronunciò questa frase, Andreotti sdrammatizzò nel suo commento, da romano rotto a tutto, come sempre diceva, e spiegò che l’attuale penuria è giustificabile, che“allora era tutto diverso, c’erano il comunismo e la Guerra fredda. Quelli per fortuna sono finiti, ma la qualità dei politici non se n’è giovata.