L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, o almeno così dovrebbe essere. Invece la piaga sociale del precariato persino nella Pubblica amministrazione è ancora tanto alta da far aprire alla Commissione Ue addirittura una procedura d’infrazione. Perché se è vero che da una parte il decreto Dignità ha fatto decollare le assunzioni stabili, restano ancora troppe le persone senza diritti garantiti, e a quanto pare gli uffici pubblici non sono indenni da questa piaga. Per Bruxelles, infatti, le amministrazioni centrale e locali avrebbero fatto un uso eccessivo di contratti a termine, che restano una forma atipica per l’Ue, perché, in questo modo, si realizza una forma di discriminazione nei confronti dei colleghi stabilizzati.
LA DIRETTIVA. Per giustificare l’avvio della procedura di infrazione, la Commissione Ue ha fatto, ovviamente, riferimento al diritto del lavoro comunitario. Perché la direttiva Europea sui contratti a termine prevede che i lavoratori abbiano le stesse condizioni dei colleghi a tempo indeterminato comparabili. Ma esaminando la legislazione italiana in tema di lavoro, la Commissione ha rilevato una profonda lacuna del nostro ordinamento che, quindi, esclude da questa forma di tutela per diverse categorie di lavoratori del settore pubblico, fra cui la scuola e la sanità, solo per citare le due più colpite.
La Commissione, però, ha elencato poi in dettaglio alcune categorie del settore pubblico in cui va garantita parità di trattamento, come insegnanti, personale sanitario, lavoratori del settore dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica, ad esempio musicisti e cantanti di coro, personale di alcune fondazioni di produzione musicale, personale accademico, lavoratori agricoli e personale volontario dei vigili del fuoco nazionali. Nel mirino il fatto che il nostro Paese non ha predisposto garanzie sufficienti per impedire le discriminazioni in relazione all’anzianità di servizio maturata durante il decorso del contratto a termine.
FASE DUE. Cosa accade ora? L’Italia ha due mesi di tempo per rispondere alle argomentazioni di Bruxelles. Ma se questo non dovesse avvenire la Commissione europea passerà alla fase successiva inviando un parere motivato. In pratica si tratterebbe di una diffida formale ad adempiere alle correzioni richieste dagli organi europei. Nel caso in cui però l’Italia continui a non ottemperare alle indicazioni della Commissione questa potrebbe proporre ricorso per inadempimento presso la Corte di Giustizia dell’Unione Europea. In questo caso si entrerebbe in un vero e proprio contenzioso legale con tanto di multa.