“Una mobilitazione così non si vedeva da anni”. Non ha certo nascosto la propria soddisfazione il segretario generale di Slc Cgil, Riccardo Saccone, nel commentare la riuscita dello sciopero di operai, tecnici, impiegati e quadri Rai indetto per l’intero turno da Slc Cgil, Fistel Cisl, Uilcom Uil, Fnc Ugl e Snater, che ieri ha paralizzato i palinsesti della televisione pubblica.
Decine i programmi Rai saltati
E sul fatto che l’agitazione abbia raggiunto il risultato sperato non vi sono dubbi. A certificarlo la lunga lista dei programmi saltati, sostituiti da repliche o da fondi di repertorio, fin dalle prime ore del mattino: “Tg1 Mattina”, “Tg2 Italia Europa”, Tg Regionali, “Tg Leonardo”, “Unomattina”, “Agorà”, “Buongiorno Regione”, “Buongiorno Italia”, “La volta buona”, “Storie italiane”, “È sempre mezzogiorno”, “Elisir”, “I fatti vostri”, “Restart”, “Vita in diretta”, “Affari tuoi”.
“E tanti altri – precisa Saccone – sono andati in onda in forma ridotta”. Secondo la Cgil, all’agitazione ha partecipato oltre il 60% del personale, con picchi dell’85%.
Uno sciopero rivendicativo ma anche politico
Uno sciopero sia rivendicativo che politico. Quattro i punti salienti della protesta: il taglio previsto ai fondi destinati al servizio pubblico da 150 milioni di euro, che “mette a rischio la tenuta occupazionale, non elimina sprechi o inefficienze che pure esistono”, dicono i sindacati.
Che ricordano come tale pretesa sia assurda, visto che “lo Stato è in debito verso la Rai di oltre un miliardo”; La svendita di Rai Way per “fare cassa”; il blocco delle stabilizzazioni dei precari nonché l’annunciato ridimensionamento degli organici.
“Una Rai libera da sprechi, mega consulenze, super stipendi ed appalti inutili. Tutte voci, queste, non intaccate dalla richiesta di 150 mln di euro. L’altra Rai, quella colpita, è quella dei “titoli di coda”, fatta da quegli stessi lavoratori che beneficiano degli “80 euro” in busta paga e che oggi rischiano il proprio posto di lavoro”, chiosa il sindacato.
Sciopera anche il consigliere Di Pietro
A incrociare le braccia ieri anche il rappresentante dei dipendenti in cda, Davide Di Pietro. “I sindacati sono stati costretti a dichiarare azioni di lotta e una giornata di sciopero, poiché l’azienda non si è resa disponibile a rivedere l’ipotesi di accordo inerente il rinnovo contrattuale dopo che i lavoratori a maggioranza l’hanno bocciata al referendum”.
“Nodo cruciale – spiega Di Pietro – è l’insufficienza delle risorse economiche messe in campo per il costo complessivo del rinnovo del contratto scaduto ormai da quasi 2 anni. Per questo credo, che in segno di discontinuità con il passato, l’azienda dovrebbe ridurre il ricorso a società esterne di produzione per quanto riguarda l’acquisto dei format e mirare alla reinternalizzazione dell’ideazione dei contenuti che oggi paghiamo cifre esorbitanti. Questo permetterebbe una razionalizzazione dei costi e renderebbe possibile anche evitare i numerosi contratti di collaborazione e consulenza strapagati”.
La grande abbuffata per le nomine
Ma lo sciopero di ieri – e qui siamo al punto politico – era anche una risposta allo scontro, o meglio, agli scontri, sul futuro di viale Mazzini, che sta giocando la politica. Il 26 settembre le Camere voteranno per l’elezione dei quattro membri del Cda, poi subito dopo il governo indicherà i nomi di Ad e presidente.
Nel centrodestra non c’è accordo (Fi punta su Simona Agnes e FdI ha già indicato Giampaolo Rossi come Ad), ma la Lega è pronta far saltare il banco, se non saranno esauditi i suoi appetiti quanto a direzioni di Tg o di rete. Una spartizione di potere vera e propria, che i dipendenti hanno stigmatizzato anche ieri (così come aveva fatto l’Usigrai).
Niente accordo per la Vigilanza
Ma non c’è accordo nemmeno con le opposizioni, necessario per far promuovere i nominati in commissione di Vigilanza, dove il centrodestra ha bisogno di due voti (tre se Azione dovesse sostituire la senatrice Mariastella Gelmini passata nel gruppo misto) che non ha.
Opposizioni (non) unite
Dal canto loro, neanche le opposizioni hanno un piano comune. M5s, da un lato ha ricordato che prima si riscrivono le regole e poi si vota il cda, ma dall’altro ha detto che potrebbe considerare di votare un presidente di garanzia, che però non può essere Agnes, né nessuno dei nomi fatti dalla maggioranza.
Il Pd, invece, è fermo all’accordo siglato tra i capigruppo dell’opposizione in Vigilanza il 10 settembre, ovvero prima la riforma della governance, poi le nomine. E medita l’Aventino in Vigilanza.