Chissà se è stato solo un caso, ma la coincidenza lascia riflettere. Due giorni fa il commissario governativo per l’Agenda Digitale, Diego Piacentini, rilascia un’intervista a Repubblica in cui elogia i progressi italiani sulla strada della digitalizzazione e annuncia che, nei prossimi cinque anni, l’obiettivo è quello di arrivare all’80% degli italiani con “un’identità digitale”. Il tutto tramite l’implementazione e la diffusione nelle amministrazioni centrali e periferiche dei punti cardine dell’AgiD: il sistema dell’identità digitale (Spid), l’anagrafe nazionale, i pagamenti di PagoPa. “Certo – dice Piacentini nell’intervista – ci vuole anche altro: la volontà e l’organizzazione, le competenze”. Ecco: a distanza di 24 ore da quell’intervista, la relazione della commissione parlamentare d’inchiesta sulla digitalizzazione nella pubblica amministrazione denuncia la mancanza di competenze, organizzazione e volontà. Il report arriva dopo circa un anno di indagini e audizioni e il quadro delineato è a dir poco inquietante: 310 pagine dalle quali emerge un ritratto chiaroscurale degli uffici pubblici che, spesso, non comprendono nemmeno l’importanza del passaggio al digitale. Le pubbliche amministrazioni, scrivono infatti deputati e senatori, “approcciano il tema in modo episodico e non organico. Sicuramente non strategico e non prioritario”.
Mare magnum – Ecco che allora “la trasformazione digitale è ben lontana dall’essere realizzata”. Inevitabile quando, scrivono ancora i parlamentari, “l’aspetto più evidente emerso durante i dodici mesi di inchiesta è probabilmente la scarsa conoscenza e applicazione della normativa relativa al digitale”. E questo vulnus, ovviamente, si traduce anche in una mancanza di competenze specifiche, che lasciano gli uffici pubblici assolutamente sguarniti. Ovviamente, poi, tale ritardo si traduce in costi per appaltare esternamente. Secondo quanto si legge nella relazione, “il Piano triennale dei costi per l’informativa nella Pubblica amministrazione, redatto dall’Agenzia per l’Italia Digitale, stima in 5,7 miliardi di euro la spesa esterna ICT (Tecnologia dell’Informazione e della Comunicazione, ndr) nel nostro Paese”. Spesa importante, ma frammentata e non organizzata, secondo il report. Tanto che oggi abbiamo l’esistenza di circa 11mila data call center delle pubbliche amministrazioni, 25mila siti web e circa 160mila basi dati. Un mare magnum digitale entro cui è difficile muoversi.
Pochi risparmi – Ma anche se andiamo a scomporre la spesa ne vediamo delle belle. Per dire: circa 970 milioni se ne vanno solo per il programma di razionalizzazione della pubblica amministrazione, mentre altri 130 soltanto per la “connettività del sistema pubblico”. Qualche miglioria si potrebbe avere con un intervento più ficcante da parte della Consip. Peccato però che, denuncia ancora il rapporto, la centrale acquisti della pubblica amministrazione incide soltanto per il 24% della spesa. Il motivo? “Facoltà ed obblighi molto diversificati e complessi da seguire”, si legge ancora. Il caos.
Tutto bloccato – Ma non è tutto. Perché ci sono anche casi ministeriali di assoluta inefficienza. Andiamo al ministero dell’Istruzione di Valeria Fedeli. Qui la commissione d’inchiesta ha appurato che “non è stata effettuata una nomina formale né del responsabile della transizione alla modalità digitale né del difensore civico”. Figure che sono state introdotte dal Codice dell’Amministrazione Digitale. Anno di approvazione: 2005. Altro ministero, altro progetto per ora appeso al palo. Andiamo al Viminale. Nell’estate di quest’anno sarebbe dovuto entrare in funzione il sistema informativo dei migranti, dato che ad oggi le prefetture comunicano i dati relativi ai centri di accoglienza al ministero ancora tramite mail. Costo dell’operazione (affidata ad Accenture): 300mila euro. Peccato che nell’audizione tenuta ad hoc, il progetto risultava ancora nella sua fase sperimentale. La digitalizzazione può attendere. Lo spreco no.
Tw: @CarmineGazzanni