Dopo due anni di guerra in Ucraina e ben poche prospettive di una sua conclusione, tanti si chiedono – giustamente – a chi giova questo sanguinoso conflitto iniziato dall’offensiva lanciata da Vladimir Putin e perché i grandi leader sembrano fare ben poco per fermare le ostilità. A provare a rispondere a questa annosa domanda è stato Patrick Galey, investigatore senior sui combustibili fossili presso Global Witness, che illustrando un corposo report ha spiegato senza mezze misure che le maggiori compagnie di combustibili fossili sono i principali vincitori della guerra in Ucraina” visto che, dati alla mano, dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina hanno macinato profitti da record. Un fatto non opinabile ma che da solo rischia di non essere esaustivo per rispondere alla domanda perché, al pari delle società della Big Oil, anche quelle attive nel settore della Difesa sono tra chi ha beneficiato di più di quanto sta accadendo in Ucraina e negli altri teatri di guerra, tra cui quello mediorientale.
Secondo Greenpeace la spesa dei Paesi Nato con la guerra in Ucraina è salita del 10% nel 2023 e del 50% nell’ultimo decennio
Dati alla mano, come riporta Euractiv ossia la rete di media paneuropea specializzata nelle politiche dell’Unione europea citando un rapporto della Ong Global Witness, “le maggiori compagnie petrolifere europee e statunitensi hanno realizzato profitti record per un totale di oltre 260 miliardi di euro da quando è iniziata l’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022”. Si tratta, come si legge nel rapporto, di Shell, Bp, Chevron, ExxonMobil e TotalEnergies che, come noto, sono le più grandi del settore. Un’esplosione dei ricavi che è iniziata ancor prima del conflitto perché la dinamica che ha comportato l’aumento considerevole – per non dire spropositato – dei costi dell’energia affonda le radici con la pandemia da Covic-19 ed è proseguita, con una vera e propria impennata, con la deflagrazione del conflitto ucraino. Ciò è dovuto soprattutto alle sanzioni economiche imposte alla Russia dall’occidente a cui ha fatto seguito “la decisione di Mosca di interrompere le importazioni di gas verso alcuni Paesi in rappresaglia” che ha fatto schizzare alle stelle “il prezzo del gas in Europa, scatenando una crisi energetica mondiale”.
Gli utili delle aziende energetiche a quota 260 miliardi. Perfino Biden ora parla di vergognosa speculazione
Che il problema sia reale e che rischia di minare ogni prospettiva di ripresa economica, lo ha capito perfino il presidente degli Stati Uniti Joe Biden che ha letteralmente accusato le compagnie petrolifere di fare enormi profitti “dalla guerra”, senza minimamente contribuire al benessere globale. Una tesi che è stata sostenuta più volte, salvo non essere mai preso sul serio, dal segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, secondo cui queste aziende stanno “tenendo l’umanità per la gola”. Quello che sostiene Galey è che “indipendentemente da ciò che accade sul fronte, le maggiori compagnie di combustibili fossili” stanno “accumulando ricchezze inimmaginabili sulla scia di morte e distruzione, grazie ai prezzi dell’energia in poderosa ascesa”.
Tanto per intenderci soltanto considerando le compagnie britanniche Shell e Bp, i profitti sono stati pari a 75 miliardi di sterline, ossia “una somma che potrebbe coprire tutte le bollette elettriche delle famiglie britanniche per 17 mesi” secondo il report del Global Witness. Un settore che malgrado guadagni record, grazie ai quali stanno ulteriormente rafforzando la propria posizione di mercato “acquistando piccoli attori del settore petrolifero e del gas con Chevron che ha comprato Hess Corporation per 53 miliardi di dollari ed ExxonMobil che ha comprato Pioneer per 60 miliardi di dollari”, incredibilmente sta perfino riducendo la forza lavoro come fatto da Shell “che ha deciso di invertire la sua decisione di ridurre la sua produzione di petrolio nel prossimo decennio” per poi “licenziare 200 persone dalla sua divisione di lavori verdi”.
Può sembrare una bazzecola ma così non è perché il conflitto sta dando nuova linfa ai combustibili fossili, riducendo gli investimenti nella Green economy e facendo capire come gli unici sconfitti sono gli abitanti dell’intero pianeta che, proprio mentre il cambiamento climatico sta facendo vedere il suo potenziale catastrofico, subiranno una nuova esplosione delle immissioni di gas serra. Sempre secondo Global Witness, infatti, tutte le aziende del Big Oil messe insieme “emettono più carbonio ogni anno di quanto ne emettano Brasile, Australia e Spagna messi insieme”.
Ma, come detto, a stappare lo champagne è stato – ed è – anche il settore della Difesa che ovviamente trae beneficio dai conflitti come anche dalla prospettiva che ne scoppino altri. Aziende di armamenti che macinano profitti record ma su cui, al contrario di quanto accade con le compagnie petrolifere, i leader mondiali preferiscono non proferire parola. Anzi dal segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, e fino ai ministri della Difesa di tutto l’occidente, Guido Crosetto incluso, il refrain è sempre quello che bisogna “investire di più”. Eppure i dati sembrano dire che di soldi ne stiamo utilizzando molti visto che la spesa pubblica per il settore militare nei Paesi dell’Unione europea membri della Nato è aumentata del 10% nel solo 2023 rispetto al 2022, anno quest’ultimo in cui la spesa si assestava a 2.240 miliardi di dollari complessivi.
Per meglio comprendere il fenomeno non si può che citare il rapporto ‘Arming Europe’ di Greenpeace secondo cui i Paesi Nato Ue hanno aumentato del 50% le spese militari dal 2014 a oggi per una cifra che è passata da 145 miliardi a 215 miliardi di euro. In particolare emerge che metà degli acquisti sono dovuti alle importazioni di armamenti dagli Usa che risultano i veri beneficiari delle guerre che oggi funestano il pianeta. Studio che ha analizzato soprattutto il caso tedesco, italiano e spagnolo, rilevando che la Germania ha aumentato la spesa militare reale del 42%, l’Italia del 30%, la Spagna del 50%. Davanti alla crescita della spesa, secondo i dati più recenti forniti dal Financial Times, le 15 più grandi aziende militari hanno registrato una crescita degli ordini pari al 76% negli ultimi anni, con commesse che sono passate dai 441,8 miliardi del 2015 ai 777,6 miliardi di euro del 2022. Tutti numeri che spiegano come la guerra sia un business remunerativo e a cui nessuno vuole rinunciare.