Processo Regeni, il teste inchioda lo 007: “Lo abbiamo fatto a pezzi”

Per il testimone sotto protezione, il colonnello avrebbe raccontato quanto accaduto a Regeni a un uomo dei servizi kenioti

Processo Regeni, il teste inchioda lo 007: “Lo abbiamo fatto a pezzi”

Giulio Regeni “Lo abbiamo fatto a pezzi”. A raccontare ciò che accadde al giovane ricercatore friulano – il cui cadavere venne ritrovato in Egitto a gennaio del 2016 –  ad un addetto dei servizi di sicurezza del Kenya in un ristorante a Nairobi sarebbe stato uno 007 egiziano, il maggiore Magdi Ibrahim Abdel Sharif. A raccontare la conversazione, ieri al processo che si sta celebrando presso la Corte d’Assise di Roma e che vede imputati quattro ufficiali dei servizi segreti del Cairo, un testimone (il teste Gamma) che era seduto ad un tavolino affianco agli agenti segreti.

“Pensavano che Regeni fosse della Cia o del Mossad”

‘Gamma’ ha spiegato: “Parlavano di un italiano che era un problema, ne avevano abbastanza. Ho collegato dopo di chi parlavano. Il maggiore Magdi Ibrahim Abdel Sharif disse ‘finalmente l’abbiamo preso: lo abbiamo fatto a pezzi, lo abbiamo distrutto‘. E poi ha aggiunto ‘nel nostro Paese abbiamo avuto il caso di un accademico italiano che pensavamo fosse della Cia, ma anche del Mossad. Era un problema perché era popolare fra la gente comune’”.

Rispondendo poi alle domande del pubblico ministero Sergio Colaiocco, Gamma ha specificato: “Ho sentito due uomini accanto a me che parlavano. In un tavolo vicino c’erano un egiziano e un addetto alla sicurezza del Kenya, scesi poco prima da un veicolo diplomatico egiziano. Erano a distanza di circa due metri da me: non c’erano tavoli fra noi”.

Ad una domanda più specifica dei magistrati, ha poi specificato: “Hanno iniziato a parlare delle elezioni presidenziali in Kenya, parlavano in inglese. Parlavano di tensioni e scontri con la polizia dopo il voto. Il funzionario diceva che bisognava restare fermi e che senza ingerenze straniere le forze di polizia avrebbero potuto reprimere meglio”.

Per i giudici l’Egitto non è un paese sicuro

Ma l’udienza di ieri è stata anche quella che ha sancito, per i giudici, che l’Egitto non è un Paese sicuro. E per questo i togati hanno dato il via libera all’acquisizione di una serie di verbali di testimoni egiziani sentiti sul caso Regeni e che, per paura di ritorsioni, non potranno essere ascoltati nel processo.

“Numerosi sono i fatti obiettivi che documentano come la situazione dei diritti civili in Egitto sia ampiamente compromessa”, scrivono i giudici nell’ordinanza che cita rapporti di Ong, Amnesty International’ e Human Rights Watch del 2024, così come pronunciamenti del Parlamento europeo e dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani.

Viene citata anche la “scheda 2024 del ministero degli Esteri italiano che conclude nel senso che ‘l’Egitto è un Paese sicuro. Si ritengono, tuttavia, necessarie eccezioni per gli oppositori politici, i dissidenti, gli attivisti e i difensori dei diritti umani o per coloro che possono ricadere nei motivi di persecuzione, vale a dire per motivi di opinione politica …. indipendentemente dal fatto che il richiedente abbia tradotto tale opinione, pensiero o convinzione in atti concreti”.

Nel provvedimento i magistrati aggiungono che “tutte le fonti citate pur da prospettive diverse e con fonti differenziate, concordano nella conclusione che il Paese egiziano è connotato da significative violazioni dei diritti umani sulla base di segnalazioni credibili, che si traducono in ‘esecuzioni arbitrarie’ o illegali, comprese esecuzioni stragiudiziali, sparizioni forzate, tortura o trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti da parte del Governo, condizioni carcerarie dure e pericolose per la vita arresti e detenzioni arbitrarie (…) motivate politicamente, ovvero in relazione al diritto alla vita si assume che ‘L’Egitto è uno dei Paesi nei quali si pratica la pena di morte e nel quale il numero delle esecuzioni è tra i più alti’” .

Nel processo “riscontri significativi su pratiche egiziane di sparizioni forzate”

“Questo stesso processo – anche al di là della stretta vicenda investigata e della sorte di Regeni – , ha già offerto riscontri significativi su pratiche egiziane di sparizioni forzate improvvise e di condizioni di detenzione, anche per fatti che nel nostro ordinamento sarebbero frutto di normale espressione del pensiero, assai distanti dai principi consolidati di garanzia, libertà e del rispetto del diritto di difesa, oltreché della soggezione delle forze di polizia a controlli esterni indipendenti”, conclude la Corte.