Di Stefano Sansonetti
Ormai al Tesoro nessuno è in grado di farne un segreto. Il piano di privatizzazioni del governo guidato da Matteo Renzi, in buona parte ereditato dall’esecutivo di Enrico Letta e poi confermato, per adesso è un totale fallimento. E tale resterà fino alla fine del 2014. Problema di non poco conto, se solo si considera che il Def, il Documento di economia e finanza firmato dallo stesso premier e dal ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, stima incassi entro la fine dell’anno pari allo 0,7% del Pil. In soldoni si tratta di 11 miliardi di euro destinati all’abbattimento del debito pubblico. Insomma, è a tutti evidenti che questa cifra mancherà all’appello, di fatto producendo un bel buco nei piani del governo. La debacle, a ben vedere, riguarda praticamente tutte le società di Stato messe sul piatto da Letta alla fine del 2013.
I casi
Del pacchetto, per esempio, dovrebbe far parte Poste, di cui si aspirava a mettere sul mercato il 40% per un incasso stimato in 4 miliardi di euro. Peccato che intorno al colosso pubblico si siano aggrovigliati nodi di ogni tipo. Il nuovo ad, Francesco Caio, da una parte è impegnato nel rinnovo della convenzione con Cassa Depositi per la vendita dei prodotti postali che finora ha fruttato 1,6 miliardi di euro l’anno; dall’altra deve convincere il Tesoro a non diminuire i trasferimenti per il servizio universale, magari anche riuscendo ad aumentarli a circa 700 milioni l’anno. Si tratta, nel primo e nel secondo caso, di cifre che Caio vuole mantenere per garantire valore alla società. Ma c’è anche il problema del faro acceso dall’Unione europea sull’operazione Alitalia-Etihad (Poste è azionista della compagnia di bandiera) e sui trasferimenti da 990 milioni l’anno disposti dallo Stato a favore dell’Inps per coprire i buchi previdenziali ereditati dall’Ipost (l’ex ente di previdenza dei postini). L’altro gioiellino che avrebbe dovuto garantire lauti incassi, ovvero la Sace, si trova in una situazione di ritardo simile. Della società si sarebbe dovuto cedere il 60%. Ancora oggi non è chiara la strategia, se si vorrà optare per la quotazione o per l’apertura del capitale a investitori vari. Senza contare che Sace, nel 2012, era già stata ceduta dal Tesoro alla Cassa Depositi, a sua volta controllata all’80% dal dicastero di via XX Settembre. La solita partita di giro che comunque aveva fatto affluire alla casse del ministero 6 miliardi di euro per il 100% della società. Qui il terreno è sdrucciolevole, perché oggi a vendere Sace è la Cdp, nel cui azionariato ci sono al 18% le fondazioni bancarie, enti privati che quindi beneficerebbero dell’operazione. Perché, potrebbe chiedere qualcuno, la privatizzazione non è stata fatta direttamente dal Tesoro nel 2012?
Sabbie mobili
Ritardi anche per l’Enav, l’ente di assistenza al volo del quale si intenderebbe vendere il 49% per un incasso di un miliardo di euro. Qui, addirittura, non si è ancora tenuta l’assemblea per l’approvazione del bilancio 2013 e per la ricostituzione del cda che dovrebbe sostituire l’attuale amministratore unico, Massimo Garbini. Tra l’altro il governo si è reso conto che nel mondo non ci sono tanti precedenti di quotazione di “service provider” come l’Enav. Ci sono i casi dell’inglese Nats Uk, dove è entrata British Airways, e di Nav Canada, dove l’azionariato si è aperto al management. Ma sul da farsi è ancora nebbia fitta. Nel pantano c’è anche la cessione di Grandi Stazioni, controllata al 60% da Fs e al 40% da Eurostazioni, società che a sua volta fa capo a Edizione (Benetton), Vianini Lavori (Caltagirone), Pirelli e ai francesi di Sncf. In questo caso ancora non c’è traccia della newco annunciata per la valorizzazione delle attività commerciali delle stazioni gestite dalla società (tra cui Roma Termini, Milano Centrale e Praga). In tempi recenti si è parlato del possibile interesse del fondo inglese Cvc, degli americani di Blackstone e dei francesi di IgpDecaux, società attiva nella pubblicità sui mezzi di trasporto. Per ora, però, nulla di più. Rimangono sul piatto Stm, il cui 14% in mano al Tesoro (valutato 700 milioni) potrebbe finire in mano al Fondo strategico della Cassa Depositi, e il 49% di Cdp Reti, la società della stessa Cdp che ha in pancia il 29% di Terna e il 30% di Snam. In quest’ultimo caso in ballo ci sono i cinesi di State Grid of China e gli australiani di Ifm. Si è sempre detto che l’operazione si sarebbe dovuta concludere entro l’estate, ma al momento non ci sono segnali precisi. L’unica “nave” condotta in porto, per ora, è quella di Fincantieri. Dalla cui quotazione, però, sono arrivati solo 350 milioni dei 600 attesi. In pratica un quarto del valore di una nave da crociera.