Giovedì scorso è stato avviato l’iter per la privatizzazione di Poste. La quota di partecipazione del Mef e della Cassa depositi e prestiti è pari al 64,26 per cento (il 35 per cento detenuto da Cdp e il 29,26 per cento dal ministero). La linea, secondo le indicazioni di Chigi, sembrava quella di vendere una parte della quota del Tesoro, garantendo tuttavia che la partecipazione dello Stato, anche indiretta, consentisse di mantenere il “controllo” pubblico. Ma il giorno dopo un’incauta uscita del ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti – “Dobbiamo mantenere il controllo, non possiamo scendere sotto il 35%” – ha seminato il panico, facendo presupporre che si puntava a mettere sul mercato una quota ben al di sopra del 10% ipotizzato dalle indiscrezioni di stampa. Ieri il ministro, nel corso del question time, ha provato a metterci una toppa.
Il ministro punge la sinistra sulla privatizzazione di Tim. “Seguiremo il modello di Eni, Enel e Leonardo”
“Mi preme – ha detto il titolare del Mef – richiamare l’attenzione sulla circostanza che il programma di dismissione, di cui si è fatta menzione nella scorsa Nadef, non prevede la cessione del controllo da parte dello Stato sulle società interessate, ma riguarda la cessione di quote di minoranza, con l’obiettivo di destinare le risorse rivenienti dalle vendite alla riduzione del debito pubblico”. E ancora: “Il controllo di società quotate in Borsa si può svolgere in diverse forme, detenendo la maggioranza del pacchetto azionario oppure detenendo un numero di azioni sufficiente per avere il controllo dell’assemblea. Questo si verifica in aziende importanti e strategiche per il Paese e si verifica da tanti anni, in forma, diciamo così, diversa, diretta, indiretta, anche attraverso Cassa depositi e prestiti, basta citare Eni, basta citare Enel, basta citare Leonardo; lo stesso modello verrà replicato, con lo stesso grado di successo, probabilmente, anche su Poste Italiane”, ha spiegato il ministro, lanciando una stoccata alla scellerata privatizzazione (“la madre di tutte le privatizzazioni”, come venne definita) di Telecom, iniziata sul finire degli anni Novanta dal governo Prodi e poi D’Alema con la benedizione di Draghi, nelle vesti di direttore generale del Tesoro.
Per le opposizioni il governo fa un errore a cedere i gioielli di famiglia e non recuperare le risorse dove ci sono
“Più volte si è ricorso al verbo svendere: credo che qualcun altro abbia svenduto in passato importanti asset del Paese, certamente non lo farà questo governo”, ha affermato, sottolineando come “Poste è un valore, è un asset e anche questo governo lo ha ben presente”. “Per questo l’operazione che stiamo facendo – ha aggiunto – è di valorizzazione di questo asset, preservandone il controllo pubblico”. Dunque, “nessuno svende niente a nessuno – ha insistito – non faremo come è stato fatto con Tim, possiamo garantirvelo”. Giorgetti infine ha confermato che l’operazione “mira tra l’altro ad agevolare il collocamento presso dipendenti e piccoli risparmiatori, perché possa portare anche maggiore democrazia economica, non solo maggiore efficienza e redditività in capo alla società”.
Le rassicurazioni del ministro però non convincono l’opposizione. “Abbiamo appreso che si potrebbe arrivare a cedere fino al 30% di Poste per un incasso di 3,8 miliardi – ha attaccato Emiliano Fenu, capogruppo M5S in Commissione finanza della Camera – e si parla anche del 4% di Eni per un incasso di 2 miliardi. Ma io le ricordo, ministro Giorgetti, che il nostro debito pubblico è di 2.855 miliardi e quindi questi importi attesi significano che si sta cercando di svuotare il mare con un bicchiere. Queste privatizzazioni non servono assolutamente a ridurre il debito pubblico”. Per Fenu, “da un’operazione del genere lo Stato avrà solo una perdita economica netta”.