Il suo romanzo “Stradario aggiornato di tutti i miei baci” edito da Ponte alle Grazie è stato selezionato nei due più prestigiosi premi letterari italiani (Campiello e Strega) ma Daniela Ranieri oltre che scrittrice è anche un’attenta osservatrice della politica, come giornalista per il Fatto Quotidiano. L’abbiamo intervistata per La Notizia.
Uno scrittore vincitore dello Strega ha scritto una lettera a Draghi sul Corriere della Sera in cui gli dice: “lei è spinto alle dimissioni da un accanito torneo di aspirazioni miserabili, da sudicie congiure di palazzo, da calcoli meschini, irresponsabili e spregiudicati di uomini che, presi singolarmente, non valgono un’unghia della sua mano sinistra”. Che effetto le ha fatto?
“Mi è dispiaciuto. Al di là del merito di volere Draghi al governo, peraltro contro il suo stesso volere, che è una posizione legittima, mi ha colpito che Scurati abbia usato un linguaggio così studiatamente servile e un tono così adulatorio nei confronti di un potente che ha già tutto il Sistema (economico, finanziario, politico e diciamo culturale) dalla sua parte. Mi interrogo su cosa spinga uno scrittore affermato, che conosce il valore delle parole, a offrire un così largo e prodigo contributo al mantenimento dello status quo”.
Come è accaduto anche sulla guerra in Ucraina non trova che in questo Paese sia sempre più difficile trovare persone di cultura e della letteratura che si prendano la responsabilità di dissentire?
“Voglio pensare siano in buona fede, anche se forse è più disperante. Il dissenso non è un dono divino, una qualità della personalità. Dipende dal proprio contesto di origine e di appartenenza, dalle letture che si è fatto, dal margine di utilità che proviene dall’assecondare l’opinione dominante. Se questo margine è nullo, si è più portati a dissentire, cioè ad esercitare il pensiero critico. Non si tratta di essere bastian contrari, ma di pensare mettendo in campo tutte le mediazioni, tutte le dialettiche che ogni situazione richiede. L’eliminazione della “complessità”, ad esempio, e la sua stigmatizzazione come forma di intelligenza col nemico russo, è stata una frontiera pericolosa, oltre che ridicola, del dibattito recente (dibattito per modo di dire: noi, insieme con costituzionalisti e storici di vaglia, dicevamo “è complesso”, loro dicevano “quanto ti paga Putin?”). Interrogarsi sulle origini della guerra, sulla conformità dell’invio di armi alla Costituzione, sul ruolo della Nato nel mondo, è stato fatto apparire come un endorsement a Putin o, come mi hanno scritto alcuni su Twitter, una prova di indifferenza se non addirittura di godimento per la morte dei bambini ucraini sotto le bombe: si può essere più violenti e pedestri?”.
Perché, secondo lei, in Italia i cosiddetti “intellettuali” e gli artisti si espongono sempre così poco su questioni spinose e politiche? Timidezza o calcolo economico e politico?
“A parte qualche preziosa eccezione, l’intellighenzia italiana è una sottoclasse sociale preoccupata di mantenere i propri privilegi, di casta e di censo. È un esempio mirabile di come la struttura (i danè, come li chiamava Gadda) ha informato la sovrastruttura, cioè ha modificato e censurato il pensiero. Essere draghisti ed essere bellicisti, cioè devoti al Pil anche se pompato con la vendita di armi, è tutt’uno. Per il resto non mi sembrano timidi. Quando c’è da scrivere brani inoffensivi e spiritosi su questioni attuali, colpendo questo o quello svantaggiato e irridendo chi prende il Reddito di cittadinanza, non fanno mai mancare il loro contributo. Sono naturalmente e culturalmente amici dei potenti, non dei deboli (che non è glamour né conveniente), e il desiderio di conformarsi all’opinione corrente, anche dei loro colleghi, li tiene lontani dalla vocazione eversiva dell’arte. Mi viene in mente un brano della Dialettica dell’Illuminismo che è folgorante: “Solo la necessità di inserirsi continuamente, sotto le minacce più drastiche e più severe, come esperto di problemi estetici nella vita degli affari, ha definitivamente piegato il collo dell’artista. Un tempo essi firmavano le loro lettere, come Kant e Hume, «servo umilissimo», e intanto minavano le basi del trono e dell’altare. Oggi danno del tu ai capi di governo e sono sottomessi, in tutti i loro impulsi artistici, al giudizio dei loro principali illetterati”.
Lei oltre che scrittrice è anche giornalista. Come convive nei due ruoli?
“Mi interessa l’attualità, ma amo l’inattualità e ad essa anelo. Per il resto scrivo pezzi di antropologia del potere o pagine su temi di cultura. È un esercizio quotidiano alla scrittura. Lo hanno fatto scrittori immensi senza danno per la loro vocazione principale. Impossibile fare un elenco, cito i più grandi: Gadda, Manganelli, Sciascia, Landolfi, Buzzati, quest’ultimo senza sofferenza, come invece, in parte, gli altri. Credo che oggi manchino scrittori-giornalisti, basta leggere come sono scritti i quotidiani, l’uso della punteggiatura che fanno i notisti politici, anche i più illustri. Questa sciatteria si riflette anche nel pensiero, che spesso è scadente. Karl Kraus univa l’attività di giornalista a una indagine addirittura metafisica di sguardo critico sulla realtà: quanti lo fanno oggi?”.
Le è mai capitato di avere la sensazione di perdere lettori per le sue prese di posizioni politiche?
“No. I lettori dei miei libri sono in genere abbastanza evoluti”.
Forse funziona solo lo scrittore “non sgualcito” dalla realtà?
“Dipende da cosa si intende per “funziona”. La maggior parte delle opere di questi scrittori non sgualciti, non compromessi, placidamente quieti nella rappresentazione dei loro drammi borghesi, sarà dimenticata in pochissimi anni. È comunicazione, è marketing. Quindi in un senso molto preciso funziona, cioè è funzionale: serve a corroborare la narrazione e la dis-etica corrente. Nell’ottica delle Lettere e del progresso morale dell’umanità, non serve a niente”.
Prende piede il sogno di un governo che sia sempre largo, che tenga dentro i cosiddetti “moderati” lasciando fuori i cosiddetti estremismi. Un’idea che con Draghi ha avuto un notevole rinvigorimento. Per essere credibili in questo Paese è necessario non avere (o non esporre) idee troppo radicali?
“L’idea che “si vince al centro” è semplicemente ridicola, manipolatoria e anti-storica. In Francia non è stato così: Macron ha non solo non-fermato, ma anche fatto crescere Mélenchon e Le Pen. Si scavano la fossa da soli, poi quando la gente si accorge che sono inetti e classisti, gridano al lupo e al fascismo. Così brigano per rimettere tutti dentro la marmellata neo-liberista, la piaga delle società occidentali. In realtà questi famosi moderati non sono che gente di centrodestra che ama detenere il potere a qualunque costo, odia il popolo e si è inventata la guerra al populismo per mascherare la propria arroganza e le proprie impotenze”.
In cosa assomiglia il mondo letterario italiano al mondo politico? Ci sono dinamiche che si ripetono?
“Ci sarebbe da scrivere un trattato à la fratelli Goncourt su questo. La cosa più lampante che mi viene in mente è il razzismo, condiviso nei due ambienti, per chi “non ce l’ha fatta”, per quelli che loro decretano come “non meritevoli”, per i non “resilienti”, per gli studenti lavoratori che hanno voti bassi, per chi è meno abile nelle relazioni sociali, per chi non “fa network”, per chi ha fatto lavori umili e cerca di migliorare la propria condizione: in definitiva per i poveri. Hanno antenne apposite per individuarli ed escluderli, posto che a loro volta la maggior parte di loro sono inconsapevolmente illetterati fatti e finiti”.
Come si sono comportati i suoi colleghi giornalisti nella promozione del suo libro? Ha avuto la sensazione di “frizioni” per il suo doppio ruolo?
“Mi fa sempre sorridere che alcuni giornalisti che sui social sparano a zero tutti i giorni contro il Fatto poi mi scrivono senza alcun imbarazzo per chiedermi recensioni sul Fatto per i libri loro e/o delle loro consorti. Non ho avuto sensazioni evidenti di frizioni. Chi non ama come scrivo e cosa scrivo ha tutto il diritto di ignorarmi. Altri invece sono stati molto gentili. Però alcuni giurati del Premio Strega, molti dei quali intellettuali, scrittori, giornalisti a loro volta, interpellati dall’ufficio stampa di Ponte alle Grazie hanno candidamente dichiarato che non avrebbero votato il mio libro perché scrivo sul Fatto”.
Che ne pensa del capitolo sulla crisi del romanzo che è questa legislatura?
“Dice che è una crisi? Uno scrittore veramente bravo, uno come Morselli o Savinio, ne farebbe un capolavoro”.
Nel complesso, questi 5 anni, che genere sarebbero? Una distopia?
“No, è commedia all’italiana. Compreso lo sfondo drammatico di 6 milioni e mezzo di poveri che assistono a questo circo e pagano le conseguenze di decisioni politiche oscenamente classiste”.
La letteratura ha ancora un ruolo politico in Italia?
“Lo ha sempre e ovunque. Il suo ruolo è universale ed eterno. Ci sarà sempre, anche nelle epoche decadenti, qualcuno capace di apprezzare una riga scritta da un poeta, da uno scrittore non obbediente. Ovidio a Tomi continuò a scrivere, per fortuna”.
Scrivendo storie per mestiere, come andrà a finire?
“Draghi tornerà sui suoi passi per una questione di reputazione e ambizione personale. Poi ci sarà chi premerà per un Draghi bis anche dopo le elezioni, a cui andrà a votare meno della metà degli elettori e il cui risultato basterà ignorare. Almeno finché non traslocherà al Quirinale, allora potremo vivere senza di lui come Presidente del Consiglio”.