Andrea Pertici, professore ordinario di diritto costituzionale all’Università di Pisa, che giudizio dà al premierato che ha in mente la presidente del Consiglio Giorgia Meloni?
“Anzitutto non si capisce bene cosa sia. Perché se fosse presidenzialismo si potrebbero muovere delle critiche almeno capendo di cosa si parla. Qui si va verso l’elezione diretta del premier, non so come lo chiameranno, che certamente è un modello inesistente sia nella teoria sia nella pratica. Non è il presidenzialismo sul modello statunitense e non è il modello di semi presidenzialismo francese”.
Quindi cos’è?
“Non si capisce cosa sia. Vogliono l’elezione diretta di un capo del governo mantenendo anche un presidente della Repubblica che si trasforma da organo di garanzia a organo quasi cerimoniale, poiché i poteri più significativi di intermediazione politica del presidente sono quelli di formazione del governo e di scioglimento delle camere e gli vengono sostanzialmente tolti”.
Ma quindi da dove viene questa idea di riforma?
“Ci sono aspetti, come la norma ‘antiribaltone’ della proposta Berlusconi del 2006 che è già stata bocciata. Per alcuni versi questa riforma recupera alcuni aspetti della proposta del 2006 e alcuni aspetti del 2016. Entrambe bocciate dalla Corte costituzionale. Questo è un aspetto abbastanza singolare. Non si va molto oltre: il problema al quale si cerca di rispondere è sempre quello della cosiddetta instabilità di governo che in realtà non passa per le riforme costituzionali ma soprattutto per l’assetto dei partiti politici come configurato dalla legge elettorale”.
Non si rischia con questa riforma di avere governi cristallizzati indifferenti alla volatilità elettorale?
“Questo potrebbe essere un rischio se vediamo che il consenso dei partiti politici oggi è molto variabile. Basti pensare che la Lega nel 2019 aveva il 37% e alle politiche di 3 anni dopo ha preso meno del 9%. Stabilizzare eccessivamente un governo può essere un rischio rispetto al suo consenso popolare. Si torna quindi al problema dei partiti politici. Perché i partiti hanno questa variabilità? Perché non hanno un radicamento sufficientemente profondo. Forse le riforme alle quali si dovrebbe guardare sono quelle che riguardano un maggiore coinvolgimento degli elettori, per porre rimedio all’astensionismo che cresce”.
Che ne pensa della “norma anti-ribaltone” che prevede che in caso di caduta del premier, prima di tornare alle elezioni, si cercherà un altro premier ma restando all’interno della maggioranza e del programma votato dai cittadini e senza la possibilità di esecutivi tecnici?
“Molto singolare. Se deve portare avanti lo stesso programma, o il presidente viene meno per motivi strettamente personali oppure diventa una questione di antipatia personale, se il programma è lo stesso e lui lo deve portare avanti nello stesso modo. Non si capisce il cambio della singola persona. La seconda, peraltro, non sarebbe scelta dagli elettori. Diventa un’ombra della prima. Ma parlando di questo stiamo facendo l’errore di accettare l’impostazione generale della riforma che invece è inaccettabile”.
Qualcuno già dice “ecco i costituzionalisti che non vorrebbero mai toccare la Costituzione”…
“Innanzitutto, i costituzionalisti sono una categoria di scienziati, difficilmente sono raggruppabili tutti insieme. Ognuno sulla base delle proprie riflessioni arriverà a determinate conclusioni. I costituzionalisti non devono descrivere ma devono riflettere sulle soluzioni offerte e eventualmente proporre. In generale ci sono stati costituzionalisti favorevoli ad alcune riforme e contrari ad altre. La divisione tra conservatori e progressisti ogni tanto mente: ci possono essere riforme di stampo conservatore. In molti periodi ci sono state riforme che non andavano nel senso di valorizzare i valori progressisti. La distinzione funziona andando a vedere il merito: conservare una Costituzione progressista non è conservatore nel senso politico del termine. Ugualmente, i riformisti, in senso proprio, non sono quelli che vogliono le riforme ma sono quelli che vogliono un progresso, con riforme graduali, e non con la rivoluzione”.
Intanto il governo ha posto la fiducia sulla legge di Bilancio…
“Non si può dare la colpa solo a questo governo. Da tempo il ruolo del Parlamento è stato marginalizzato. Nelle ultime legislature è emerso in pieno, lo si deve all’abuso dei decreti legge su cui bisognerebbe intervenire a livello costituzionale ma non solo. D’altronde la democrazia dovrebbe avere una tempistica, richiede tempo organizzato bene, lavorando duramente e a lungo e con impegno. Trovo singolare che ci siano dei capigruppo che si appellano al proprio gruppo per non fare emendamenti. Ciascuno dovrebbe avere il suo ruolo: il capogruppo dovrebbe valorizzare il ruolo del gruppo. Sulla legge di Bilancio ormai è un classico: già nel 2018 i parlamentari di opposizione sollevarono il conflitto di attribuzione lamentando un non sufficiente coinvolgimento del Parlamento. Poi le maggioranze son cambiate, dal 2018 a oggi le abbiamo avute tutte, hanno governato tutti e sinceramente tutti hanno cercato di costringere il dibattito parlamentare sulla legge di Bilancio. Non è una novità. Anche in questo senso manca il ruolo dei partiti, lo spessore dei parlamentari, l’impegno dell’attività parlamentare: questi sono gli aspetti che possono cambiare le cose”.