Il 18 giugno scorso il Senato ha approvato la controversa riforma costituzionale del “premierato”, una proposta tanto ambiziosa quanto discussa, fortemente voluta dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni. La riforma costituzionale promette di rivoluzionare il nostro sistema politico, introducendo l’elezione diretta del presidente del Consiglio e una cosiddetta “norma anti-ribaltoni”. Il mito della “stabilità” del governo è un chiodo fisso della maggioranza di governo ma, come suggerisce Vitalba Azzollini nel suo articolo per Pagella Politica, le promesse del governo potrebbero non reggere alla prova dei fatti.
La presidente Meloni ha spesso sottolineato come uno dei “grandi obiettivi” della riforma sia garantire il diritto dei cittadini di scegliere da chi essere governati, mettendo fine alla stagione dei ribaltoni. Questa riforma del premierato nasce con l’intento di evitare situazioni come quella del 2018-2019, quando in un breve arco di tempo si passò da un governo Movimento 5 Stelle-Lega a un governo Movimento 5 Stelle-Partito Democratico, entrambi guidati da Giuseppe Conte. Tuttavia, nonostante le buone intenzioni, il testo approvato dal Senato sembra fallire nel suo obiettivo principale: impedire i ribaltoni tra governi.
La riforma del premierato: promesse e realtà
La novità principale della riforma è la modifica dell’articolo 92 della Costituzione, che prevede l’elezione diretta del presidente del Consiglio. Questo cambiamento è significativo, poiché il capo del governo non sarà più nominato dal presidente della Repubblica, ma sarà scelto direttamente dai cittadini. Tuttavia, i cambiamenti non finiscono qui. L’articolo 94, che regola il rapporto di fiducia tra Parlamento e governo, subisce anch’esso delle modifiche. In particolare, il terzo comma stabilisce che, se il governo non ottiene la fiducia entro dieci giorni dalla sua formazione, il presidente della Repubblica deve sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni. Questo meccanismo si ripete anche in caso di revoca della fiducia da parte delle camere.
Questa riforma, tuttavia, lascia ampi margini di manovra che potrebbero consentire ancora i tanto temuti ribaltoni. Nonostante il nuovo meccanismo di fiducia. Osserva la giurista Azzollini, non c’è alcuna garanzia che il presidente del Consiglio successivo sia sostenuto dalla stessa maggioranza elettorale. Infatti, la legge non specifica che la nuova maggioranza debba essere identica a quella espressa dalle urne, aprendo così la possibilità a coalizioni diverse.
Il precedente del 2005, durante il terzo governo Berlusconi, è illuminante. Allora, una norma “anti-ribaltone” fu inclusa nella riforma costituzionale, bocciata poi con un referendum nel 2006. Questa prevedeva che il presidente del Consiglio potesse essere costretto alle dimissioni solo con il voto contrario della maggioranza assoluta della Camera, senza il sostegno dell’opposizione. Un meccanismo rigido, ma efficace per evitare cambi di governo senza passare per nuove elezioni.
Ambiguità legislativa e il rischio di nuovi ribaltoni
Al contrario, la riforma Meloni, come evidenzia Azzollini, sembra mancare di simili garanzie. Il rischio di governi di unità nazionale o di maggioranze diverse resta concreto. Il testo della legge parla di un “parlamentare eletto in collegamento con il presidente del Consiglio”, ma non specifica che debba essere supportato dalla stessa coalizione vincente. Questa ambiguità lascia aperta la porta a potenziali ribaltoni, nonostante le promesse contrarie.
Quindi no, nonostante le dichiarazioni di Meloni, la riforma costituzionale sembra più un compromesso che una soluzione definitiva. Se l’intento era di rafforzare la democrazia evitando i ribaltoni, il risultato ottenuto potrebbe non essere all’altezza delle aspettative. La riforma, così com’è, rischia di lasciare intatto il problema che prometteva di risolvere.