È arrivata oggi la notizia della convocazione a Palazzo Chigi da parte di Giorgia Meloni dei sindacati su “provvedimenti del governo sul mondo del lavoro”. Un brivido corre lungo la schiena se si pensa alla coincidenza col decreto varato dalle destre lo scorso anno, nel giorno proprio della Festa dei lavoratori. I sindacati erano stati, in quell’occasione, convocati poche ore prima del varo del testo che ha smantellato definitivamente il Reddito di cittadinanza e spalancato le porte ai contratti precari.
Ma a pochi giorni dalla celebrazione della Giornata mondiale per la Salute e la sicurezza sul Lavoro (28 aprile) e della Festa dei lavoratori (primo maggio), vale la pena fare un controcanto alla narrazione del governo, che ci dice che sul fronte dell’occupazione va tutto bene.
Strage infinita sul lavoro
Per quanto riguarda la sicurezza, la lunga scia di sangue non si arresta. Dopo la strage nella centrale idroelettrica di Bargi, dai cantieri ai campi, i lavoratori continuano a perdere la vita. Il 24 aprile scorso due operai sono morti, uno nel Bresciano e uno nel Potentino. E oggi ci sono stati tre gravi incidenti, dai cantieri ai campi, nel giro di poche ore. Nel 2023 in Italia sono stati 1041 i morti sul lavoro e 500mila gli incidenti. Un vero e proprio bollettino di guerra. E le misure messe in campo dal governo – vedi la patente a punti, operativa da ottobre e solo per il mondo dell’edilizia (l’estensione ad altri settori è rinviata a un decreto ministeriale) – lasciano a desiderare.
Dietro la bolla del lavoro
E mentre la premier continua a festeggiare la crescita dell’occupazione, i limiti del nostro sistema del lavoro restano tutti in piedi. Secondo l’ultimo Rapporto sul Benessere equo e sostenibile dell’Istat, il tasso di mancata partecipazione al lavoro, che misura l’offerta effettiva e potenziale di lavoro che non viene soddisfatta, nel 2023 è pari al 14,8%, rispetto all’8,7% della media Ue27. E la percentuale di persone in part time involontario è del 10,2%, contro una media dei 27 Paesi dell’Unione del 3,6% nel 2022. Anche il tasso di occupazione italiano è di 9,1 punti percentuali più basso di quello medio europeo (75,4%), con una distanza particolarmente accentuata per le donne: il tasso di occupazione femminile è pari al 56,5% nel nostro Paese, mentre supera il 70% per la media Ue27.
I problemi che attanagliano il mondo del lavoro rimangono i bassi salari, una forza lavoro sempre più anziana – per via delle riforme pensionistiche – e il precariato. Relativamente alla precarietà, ad esempio, l’Istat scrive che sì, lo scorso anno i dipendenti a termine hanno fatto registrare un calo del 2,4%, ma tale riduzione riguarda “esclusivamente” la componente degli occupati con lavoro a tempo determinato da meno di cinque anni, mentre “aumentano quanti svolgono un lavoro a termine da cinque anni e più”. L’indicatore, precisa ancora l’istituto, passa dal 17% al 18,1%.
Significa, in pratica, che una fetta non irrilevante della nostra forza lavoro è caduta in una trappola, appunto quella del precariato, da cui non riesce a uscire. Non solo. “La quota dei lavoratori a termine da almeno cinque anni – scrive sempre l’Istat – aumenta di più tra i laureati (+2,4%) rispetto a chi possiede il diploma (+1,3%). Per chi ha raggiunto al più la licenza media l’incremento è invece lieve (+0,4%)”.
Anche la questione del part time involontario, ossia gli occupati che dichiarano di lavorare a tempo parziale perché non sono riusciti a trovare un impiego a orario intero, è tutt’altro che di prossima soluzione. Al divario di genere – la quota di part time involontario tra le donne occupate è ancora tripla rispetto a quella degli uomini e riguarda circa la metà di quelle impegnate in lavori a tempo parziale – si somma il fatto che tale fenomeno “tende ad associarsi maggiormente a condizioni di vulnerabilità: a fronte di un calo di questa forma di lavoro tra i dipendenti a tempo indeterminato e tra gli autonomi, non si registra alcuna riduzione tra i dipendenti a termine, dove il fenomeno è ampiamente diffuso (22,9%)”.
E poi c’è il discorso dei salari da fame. Come certifica l’Ocse, l’Italia è l’ultimo in classifica tra i Paesi in fatto di retribuzioni negli ultimi trent’anni. Quando Francia e Germania crescono del 30%, noi scendiamo del 3%.