C’è qualcosa di grottesco nel vedere Angela Carini, la pugile italiana protagonista di una delle pagine più discutibili delle recenti Olimpiadi di Parigi, diventare testimonial dell’azienda che si occuperà della costruzione del Ponte sullo Stretto. Un’opera faraonica, contestata e probabilmente irrealizzabile che trova il suo volto in un’atleta che ha abbandonato il ring dopo appena 46 secondi di combattimento. La metafora è servita su un piatto d’argento.
Webuild, l’azienda incaricata di realizzare il sogno berlusconiano per eccellenza, ha pensato bene di lanciare una campagna pubblicitaria intitolata “Costruire un sogno: storie di campionesse”. Peccato che tra queste “campionesse” ci sia proprio Carini, fresca reduce da una figuraccia olimpica che ha fatto il giro del mondo. La boxeur italiana, ricordiamolo, si è ritirata dopo pochi secondi dall’inizio del match contro l’algerina Imane Khelif, in un turbine di polemiche e accuse reciproche che hanno oscurato lo sport e esaltato il lato peggiore del nazionalismo da bar.
La campagna pubblicitaria di Webuild: un boomerang di ironia e sarcasmo
La scelta di Carini come testimonial, effettuata prima delle Olimpiadi ma resa pubblica solo dopo, si è rivelata un boomerang per Webuild. Sui social network è partita la prevedibile ondata di ironia, con commenti che paragonano la resistenza della pugile a quella del futuro ponte: “Speriamo che duri più di lei”, scrivono gli utenti. Altri si chiedono se anche il Ponte crollerà dopo 46 secondi, in un crescendo di sarcasmo che mette in ridicolo sia l’atleta che l’azienda.
Ma c’è un aspetto ancora più inquietante in questa vicenda. La scelta di Carini sembra premiare non tanto i meriti sportivi, quanto l’adesione a una certa retorica nazionalista. L’abbandono del ring contro Khelif, infatti, è stato salutato da una parte della politica e dell’opinione pubblica come un atto di orgoglio patriottico, in risposta alle presunte “scorrettezze” dell’avversaria algerina. Una narrazione tossica che ha trasformato una sconfitta sportiva in una sorta di crociata identitaria.
Retorica nazionalista e paradossi: la scelta di Carini tra propaganda e reazioni controverse
Webuild, consapevolmente o meno, si inserisce in questo filone propagandistico. La campagna pubblicitaria, con il suo messaggio di “audacia, perseveranza, resilienza, tenacia e passione”, suona come una giustificazione postuma del gesto di Carini. Come se abbandonare un incontro dopo pochi secondi fosse un atto di coraggio e non di debolezza.
Il paradosso è che mentre si esalta la “passione” di un’atleta che ha gettato la spugna, si pretende di costruire un’opera titanica come il Ponte sullo Stretto. Un’opera che richiederà ben altra tenacia e resistenza di quella mostrata sul ring parigino.
In tutto questo, c’è da chiedersi cosa ne pensi Imane Khelif, l’avversaria algerina trasformata suo malgrado in capro espiatorio di frustrazioni nazionali. Khelif, che ha poi vinto la medaglia d’oro, è stata oggetto di una campagna diffamatoria vergognosa, con accuse infondate sulla sua identità di genere. Una vicenda che ha portato persino all’apertura di un’indagine da parte della procura di Parigi per cyberbullismo.
La scelta di Webuild, dunque, appare quanto meno inopportuna. Premia un gesto antisportivo, alimenta una retorica nazionalista fuori luogo e rischia di associare un’opera già contestata a una delle pagine più buie dello sport italiano recente.
Il messaggio che passa è che l’importante non è vincere, ma abbandonare al momento giusto gridando al complotto. Una filosofia che mal si adatta alla costruzione di ponti, reali o metaforici che siano. Ma forse, in fondo, è proprio questo lo spirito con cui si vuole affrontare l’impresa del Ponte sullo Stretto: più propaganda che sostanza, più slogan che ingegneria.
In questo senso, Angela Carini è davvero la testimonial perfetta. Rappresenta alla perfezione l’Italia dei grandi annunci e delle piccole rinunce, dei sogni faraonici e delle meschinità quotidiane. Un Paese che sogna di unire le sponde dello Stretto, ma non riesce a tendere la mano all’avversario sul ring.