Un euro del Pnrr non si è ancora visto (la prima tranche da 25 miliardi arriverà la settimana prossima) ma c’è già chi mette le mani avanti e avvisa che i quasi 200 miliardi complessivi assegnati all’Italia non basteranno per centrare l’obiettivo di un’economia a impatto zero entro il 2050. Ultima a sostenerlo è un’analisi presentata ieri a Milano dalla società di consulenza Bain & Company. Solo nel nostro Paese, per una completa transizione green serviranno investimenti per almeno tremila miliardi di euro.
Volumi che non possono essere sostenuti senza un nuovo approccio collaborativo e coordinato pubblico-privato, che coinvolga istituzioni, operatori industriali e stakeholder finanziari, ha detto Roberto Prioreschi, managing director di B&C Italia e Turchia. Cos’altro serve allora affinché il nostro Piano Nazionale di ripresa e resilienza non si trasformi nell’ennesima grande incompiuta, per non parlare di un drammatico flop? Al primo punto c’è sempre il tema dei tempi di attuazione e della burocrazia.
Le indicazioni date dal governo vanno in questa direzione, ma sarà solo in corso d’opera che se ne potrà misurare l’efficacia. Poi c’è l’incidenza sui singoli ambiti di spesa. L’intero impianto del Recovery Fund nasce dalla catastrofe sanitaria del Covid, ma secondo la Rete Salute, Welfare e Territorio (un cartello di decine di associazioni del terzo settore) si è lasciata indietro pure la sanità. Le risorse complessive assegnate dal Piano al welfare socio sanitario sono appena il 13% del totale: 20 miliardi per la Missione 6 (Salute) e 13 miliardi per la Missione 5 (Sociale) comprese le risorse ReactEu e del Fondo Complementare.
Se a questo si aggiunge che il DEF 2021 non prevede incrementi significativi della “spesa corrente ordinaria” nei prossimi anni, anzi è previsto un decremento della spesa sanitaria in rapporto al Pil, c’è da aspettarsi non poca difficoltà per tutto questo settore. Spunta così un vero e proprio problema di sottofinanziamento ordinario, sia per la Sanità che per il Sociale.
MOLTE CRITICITÀ. Ci sono più soldi ma anche moltissimo da fare, e tempo da recuperare, nei tre ambiti chiave su cui agisce il Pnrr: connettività, infrastrutture e transizione energetica. Su quest’ultimo punto sono già in campo le grandi partecipate statali, ma è necessario investire anche su aree nuove, sviluppare la ricerca sulla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili complementari, semplificare il contesto regolatorio e di mercato. Alla rivoluzione green è destinata la fetta più grossa della torta, pari al 59,47% dell’intero piano da 191,5 miliardi, ma il lavoro da fare è imponente e da spalmare su tutto il territorio.
Criticità emergono anche dalla connettività digitale. Mentre i grandi gruppi telefonici stanno già sperimentando il 6G, l’Italia è priva di quell’autostrada virtuale capace di portare la fibra e le comunicazioni di nuova generazione su tutto il territorio. La definizione dell’assetto societario di Open Fiber sotto la regia della Cassa Depositi e Prestiti ha schiarito lo scenario, ma l’operazione che ha in Tim il suo naturale player stenta a decollare, anche per la diffidenza degli altri operatori telefonici. Una matassa da dipanare anche per il ministro dell’Innovazione tecnologica, Vittorio Colao, ex ceo globale di Vodafone.
Sulle infrastrutture materiali, infine, il ministro Enrico Giovannini (nella foto) ha nominato gran parte dei commissari incaricati di velocizzare una lista di opere strategiche, ma qui sono la burocrazie e la capacità di resistere alle infiltrazioni criminali la vera scommessa da vincere.