di Vittorio Pezzuto
Sta sbagliando parole, modi e tempi. Orfana del suo leader storico, di centinaia di sindaci e amministratori locali, di una buona fetta della sua storica militanza e di gran parte del suo elettorato la Lega Nord sembra aver smarrito il senso della misura e dell’opportunità politica. Impegnato da tempo in una claudicante riorganizzazione interna sotto la guida di Roberto Maroni, il partito che irruppe fragorosamente sulla scena all’inizio degli anni Novanta langue ormai in una sconcertante crisi di idee e di leadership. Un malanno stagionale comune ad altre forze politiche, è vero. L’errore della sua classe dirigente leghista sta però nella convinzione che provocazioni e insulti razzisti decisi a tavolino possano essere la scorciatoia utile a ridarle un’identità forte e quindi a riguadagnarle il favore di quella parte dell’Italia profonda che nutre le sue convinzioni nella lotta al nemico, nel dileggio sistematico dell’avversario.
Distinzione inesistente
Sarà stato anche dettato dalla sindrome fanciullesca per l’accoppiamento di persone ad animali, ma l’epiteto bestiale scagliato da Calderoli contro il ministro Kyenge è politicamente imperdonabile proprio perché pronunciato da un padano di lungo corso avvezzo alle malizie della politica e della comunicazione. Attingendo a un copione ciancicato, quest’ultimo ha poi provato a tracciare una sottile distinzione tra le parole “sfuggite” in un comizio e gli algidi compiti istituzionali ai quali è chiamato un vicepresidente del Senato. Ma si tratta di fuffa, buona a confondere i gonzi. È vero che Calderoli in aula ha sempre onorato quella carica con un comportamento ineccepibile, ma intanto a essa è giunto proprio in funzione del suo carisma conquistato sul campo. Non possono coesistere due Calderoli a seconda dei luoghi e dell’occasione: uno sobrio in Parlamento e uno ubriaco sul palco, uno chiamato a dirigere con fermezza i lavori di Palazzo Madama e un altro che ondeggia istrione e fuori controllo perché eccitato dal contatto con i suoi barbarici e sognanti supporter.
Non è un concetto difficilissimo da assimilare e pensavamo che il nostro fosse riuscito nell’impresa già nel febbraio del 2006, quando governo e opposizioni lo costrinsero a lasciare il suo incarico da ministro tre giorni dopo che aveva indossato al Tg una maglietta raffigurante una delle caricature su Maometto che tanta tensione avevano in quei giorni provocato in Europa.
Ma così purtroppo non è stato, e ieri ben pochi si sono astenuti dal chiedergli nuovamente le dimissioni: in un crescendo parossistico la giornata ha registrato decine di comunicati ufficiali, migliaia di proteste e condanne via Facebook e Twitter, una petizione lanciata dal sito Change.org che ha superato in poche ore quasi 80mila adesioni nonché un sit-in di fronte al Pantheon organizzato dal deputato piddino Khalid Chaouki in solidarietà al ministro per l’Integrazione Kyenge. Una mobilitazione trasversale a cui nemmeno il sospetto della strumentalizzazione politica poteva togliere argomenti e legittimità.
Debolezza personale e di partito
Anche stavolta Calderoli avrebbe potuto dimettersi, così rivendicando con fierezza come una poltrona ai vertici del Senato sia comunque ben poca cosa rispetto alla magnifiche e progressive sorti della macroregione del Nord. Invece questa volta ha deciso di procedere a oltranza, così rivelando implicitamente la debolezza in cui si dibattono lui e il partito. Al suo errore imperdonabile, la Lega ne sta infatti aggiungendo altri ancor più esiziali per il suo immediato futuro. Quando il Capo dello Stato si è detto «colpito e indignato» per l’episodio, spia manifesta della «tendenza all’imbarbarimento della vita civile», il vicesegretario Matteo Salvini poteva ad esempio praticare la virtù del silenzio. E invece lo sventurato ha risposto: «Napolitano si indigna per una battuta di Calderoli. Ma Napolitano si indignò quando la Fornero, col voto di Pd e Pdl, rovinò milioni di pensionati e lavoratori?» ha scritto ieri su Facebook, buttandola in caciara. «Io mi indigno con chi si indigna. Napolitano, taci che è meglio». Un consiglio che avrebbe fatto meglio a rivolgere a se stesso, perché la sua improvvida dichiarazione da un lato ha esteso a tutta la Lega la responsabilità politica di un incidente gravissimo ma fino a quel momento circoscritto a una persona, dall’altro ha costretto nell’angolo lo stesso leader Maroni. A quel punto il presidente del Consiglio Enrico Letta gli ha infatti inviato un ultimatum in piena regola: «L’Italia è oggi presente su tutta la stampa estera per questa vicenda. È una vergogna che fa male al nostro Paese» ha detto al termine di un colloquio a Palazzo Chigi con il collega maltese. Il premier invitava il leader della Lega a chiudere «rapidissimamente» il caso, «altrimenti si entra in una logica di scontro totale che non serve a lui, non serve a nessuno, non serve al Paese. Sulla Kyenge è stata scritta una pagina veramente insostenibile». Appello non raccolto, così creando una possibile frattura tra governo e Lombardia. Maroni in serata ha sentito Letta e ha escluso ripercussioni nella gestione di Expo 2015. Dopo aver ammesso l’errore di Calderoli («Ha sbagliato, non si devono mai insultare le persone») ha però chiesto l’immediata cessazione delle polemiche. Come se ogni volta tutto si potesse risolvere schiacciando un interruttore.