“La ferita è ancora aperta, certamente. Lo è innanzitutto per i familiari, che hanno dovuto fare a meno di una presenza centrale nella loro esistenza. Lo e’ per i siciliani, che hanno perso uno dei loro migliori uomini politici e con lui la speranza di un radicale cambiamento della politica regionale. Lo è per tutti gli italiani”. Con queste parole, quarant’anni dopo il delitto, il giornalista Giovanni Grasso, consigliere per la stampa e la comunicazione del presidente della Repubblica e autore del libro Piersanti Mattarella. Da solo contro la mafia, descrive in un’intervista a In Terris il vuoto lasciato dalla morte di Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia ucciso dalla mafia il 6 gennaio 1980.
L’omicidio di un leader “di caratura nazionale, che – spiega – avrebbe potuto contribuire grandemente al rinnovamento del suo partito, la Dc, e di tutto il Paese. Mattarella praticava l’antimafia dei fatti e non quella delle parole. La sua azione amministrativa stava incidendo profondamente nella macchina regionale, rendendo efficienti i meccanismi di funzionamento amministrativi, introducendo regole, controlli e criteri di massima trasparenza. Stava tagliando l’erba sotto i piedi della mafia, che trova terreno fertile proprio nelle inefficienze, nei ritardi, nelle procedure farraginose, nella discrezionalità delle scelte, nella mancanza di controlli”.
Un operato che, ha continuato Grasso, “confliggeva con gli interessi mafiosi. Ma credo che dietro il suo omicidio ci sia qualcosa di più, da individuare anche nella sua decisione di dar vita, in Sicilia, a un governo sostenuto dal Partito Comunista, in tempi ancora dominati dalla guerra fredda. Credo, insomma, che un filo comune leghi la morte di Piersanti a quella del suo maestro Aldo Moro”. In merito all’uccisione di Mattarella, Grasso ha spiegato che, “come è noto, sono stati condannati gli esponenti della cosiddetta cupola mafiosa come mandanti dell’omicidio, ma nulla ancora sappiamo sull’identità del killer che sparò al presidente della Regione Sicilia e del suo complice. Falcone aveva ipotizzato che a sparare, per conto della mafia, fossero due terroristi di estrema destra, appartenente ai Nar, che furono incriminati”.
“Successivamente – spiega ancora il giornalista -, dopo la morte di Falcone, arrivarono le dichiarazioni di pentiti di mafia, come Buscetta e Mannoia, che esclusero la partecipazione di killer esterni alla mafia, ma senza fornire alcuna indicazione su chi, allora, avesse sparato. Sommessamente mi permetto di osservare che la credibilità di un pentito andrebbe misurata anche dalla sua capacita’ di rivelare elementi concreti, utili al disvelamento della verità nelle aule dei tribunali. Buscetta e Mannoia hanno raccontato notizie, elementi, informazioni molto concrete sulla mafia, sul suo organigramma, su molti omicidi compiuti, ma sul delitto Mattarella sono rimasti molto, troppo vaghi”.