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Perché la riduzione dell’orario di lavoro è possibile

La pdl sulla riduzione dell'orario di lavoro andrà in Aula. La maggioranza cede: nessun regalo, ma ci sono due precise ragioni.

Perché la riduzione dell’orario di lavoro è possibile

Lunedì alla Camera sbarcherà la proposta di legge delle opposizioni sulla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Il compromesso trovato con la maggioranza mercoledì al termine di una seduta della commissione Lavoro dai toni accesi – il testo andrà in Aula senza il mandato al relatore e privo di modifiche emendative – fa ben sperare. Almeno per ora. L’antipasto non prometteva nulla di buono: tanto FdI quanto Forza Italia, difatti, hanno presentato emendamenti soppressivi dell’intero testo, replicando quanto già avvenuto con le pdl su salario minimo e conflitto di interessi poi trasformate in deleghe al governo.

Stavolta, malgrado le inusitate accuse mosse dalla ministra Calderone alle opposizioni (“Questa proposta risponde a una logica di propaganda politica” e “comprime il ruolo delle parti sociali nella contrattazione”), le cose sono andate diversamente. Un atto di magnanimità da parte della destra? Certo che no. Le ragioni di tale ripensamento sono sostanzialmente due. La prima è di natura politica: agli attenti lettori di questo giornale non sarà sfuggita l’assenza della Lega fra i presentatori degli emendamenti alla proposta di Avs, M5S e Pd. Dalle parti di via Bellerio non hanno mai chiuso alla Rol. Anzi, ad aprile scorso il sottosegretario al Lavoro Durigon – un pezzo da novanta del partito – si era detto “favorevole a prevedere strumenti per incentivare la contrattazione collettiva e aziendale per la sperimentazione della riduzione dell’orario lavorativo a parità di salario e a parità di produttività”. Sentito dall’“Ansa”, l’esponente leghista ha confermato la sua versione.

La pdl su questo punto è chiara: l’art. 1 specifica che l’intento è favorire “la sottoscrizione di contratti collettivi nazionali, territoriali e aziendali tra le imprese e le loro rappresentanze e le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, volti alla definizione di modelli organizzativi che comportino una progressiva riduzione dell’orario normale di lavoro (…) fino a trentadue ore settimanali, a parità di salario, anche nella forma di turni distribuiti su quattro giorni settimanali”. Insomma: nessun attacco al ruolo di sindacati e associazioni datoriali. La seconda ragione è da ricercarsi in studi e sondaggi che rilevano come con questa misura sia d’accordo il 70/80% degli italiani, per i quali l’equilibrio tra la vita privata e il lavoro nonché la possibilità di gestire con maggiore autonomia i propri figli sono elementi imprescindibili. Vedremo se ciò farà cambiare idea a quel pezzo di maggioranza al momento ostile. Del resto, come diceva Seneca: non si può fermare il vento con le mani.