di Massimiliano Lenzi
Due cose sono lontane anni luce dall’universo politico, culturale ma persino fantastico (nel senso della fantasia e non di un giudizio di merito) di Silvio Berlusconi, il pioniere della televisione commerciale che da oltre venti anni è protagonista assoluto della vita pubblica nazionale: il giustizialismo e la prevedibilità. Per questo, nonostante sia da ieri un po’ più vicino per lui il rischio di una fuoriuscita dalla vita pubblica a mezzo di interdizione dai pubblici uffici, gli diciamo: non molli il governo, non rovesci il tavolo, non si faccia sedurre dalla via delle urne, peraltro per nulla automatica visto che il pallino della decisione finale spetta al Capo dello Stato.
Non si faccia prendere dall’umoralità del momento, non precipiti e – come direbbe il caro vecchio Totò – «parli come badi».
Lasci sfogare i soliti abbonati alle dichiarazioni nel suo partito, che già ieri hanno cominciato a sproloquiare. Li tenga a freno. Un quarto d’ora di tribuna non si nega a nessuno (in Italia, poi, figuriamoci!) ma deve durare un quindici minuti. Guidi i suoi alla ragione, sia leader e non si faccia travolgere dalla sindrome del “muoia Sansone con tutti i filistei”. Prima di entrare nel cuore delle ragioni squisitamente politiche che dovrebbero spingere Berlusconi a mantenere il proprio sostegno al Governo e a non far subire contraccolpi all’esecutivo Letta, guardiamo alle battaglie storiche del Cav. Anzitutto quella contro il giustizialismo. Da sempre in prima fila nel non volere una politica condizionata dalle decisioni dei giudici, tanto da tentare più volte (senza particolare successo) di riformare la giustizia, Berlusconi dovrebbe sapere che far cadere un governo per una sentenza (o un ricorso respinto) è quanto di più giustizialista possa esistere. Se a decidere infatti non sono gli elettori e il bene del Paese ma una decisione dei magistrati siamo – paradosso storico ma i contrappassi fanno parte della vita e del potere – nel giustizialismo. Berlusconi non è giustizialista e per questo deve mantenere la fiducia del Pdl a Letta jr. Il secondo aspetto riguarda la storia televisiva: nel successo delle reti commerciali, il Cav ha avuto talento e imprevedibilità. In politica ha dato il meglio di sé quando ha buttato il coraggio oltre l’ostacolo, non compiendo scelte scontate. Bene, cosa ci sarebbe oggi di più prevedibile che togliere la fiducia al governo delle larghe intese? Anche per questo non lo deve fare.
La lezione di Machiavelli
C’è poi il terreno politico, da calibrare con attenzione. Anzitutto l’interesse del Paese: una nazione in crisi di occupazione, stremata da una recessione che non accenna a rallentare, alla ricerca (per ora senza fortuna) di soluzioni che facciano ripartire il sistema, con una pressione fiscale certificata ieri dalla Corte dei Conti al 53%, con l’Iva che aumenterà (quasi certo) mentre i consumi arrancano, ha bisogno di tutto tranne che di uno scontro finale sulla giustizia. Sarebbe come ballare walzer di Strauss mentre il Titanic affonda. Con nessuno vantaggio, poi, a voler essere cinici, per il Pdl e per Berlusconi. Sì, perché staccare la spina a Letta jr. non significherebbe staccarla alla legislatura e potrebbe invece innescare alleanze alla famolo strano, magari tra qualche grillino dissidente e il Pd ed altri, in modo da metter su un altro governo che vedrebbe nell’antiberlusconismo il suo principale collante politico .
Sì, lo capiamo pure noi: non è facile mantenere i nervi saldi in situazioni dove tutto sembra andarti contro, soprattutto se alla fine dell’iter (Cassazione compresa) si palesa la possibilità dell’interdizione dai pubblici uffici. Ma un uomo di Stato – corre quest’anno il 500mo dall’uscita de Il Principe di Nicolò Machiavelli – deve sempre commisurare i mezzi e i fini. Armonizzarli, tenerli assieme nell’interesse pubblico che non preveda (ovviamente) il proprio suicidio politico. Ci pensi Cavaliere, prima di buttare tutto all’aria. Continui a combattere il giustizialismo e a essere imprevedibile. Passi alla storia e non alla cronaca.
E magari rilegga quel libraccio sapido di un diabolico fiorentino (anche se lei ama Erasmo da Rotterdam) di cinque secoli or sono: «Le guerre cominciano dove si decide ma non finiscono mai dove si vorrebbe».