Quando un giornalista si impegna contro le mafie, finisce nel mirino dei clan. Klaus Davi, giornalista e massmediologo, sempre più spesso lei è oggetto di minacce. Cosa sta succedendo?
“Per prima cosa ci tengo a precisare che non credo che queste scritte continue, perché le assicuro che è uno stillicidio continuo, siano fatte da esponenti apicali della criminalità organizzata. Tuttavia credo che siano fatte da soggetti organici alla ndrangheta che interpretano l’umore delle famiglie malavitose. Il problema è che queste intimidazioni sono inquietanti perché coincidono con uno dei momenti storici più bui nella lotta alle mafie, con lo Stato che si dimostra assente. Qualcosa che la ndrangheta ha capito e che sta sfruttando. Mi dispiace dirlo ma è un dato oggettivo e lo dimostra il fatto che si è sempre detto che la ndrangheta adotta un basso profilo, al contrario della Camorra, ma ora stanno alzando il tiro convinti di poterla fare franca”.
Come mai la ‘ndrangheta le riserva tanta attenzione?
“Loro non tollerano l’ironia e la dissacrazione che uso regolarmente per combatterli. Infatti si parla più di questo mio atteggiamento che dei processi che loro stessi subiscono perché la ‘ndrangheta non tollera la dissacrazione. Se tu dai del narcos a uno ndranghetista, lui non se la prende. Ma se lo paragoni a Claudia Schiffer allora perde le staffe perché non tollera allusioni alla propria vita privata. Proprio per questo ai loro occhi sono diventato un personaggio scomodo in quanto esprimo una narrazione atta a demistificare il loro universo mafioso. E mi permetto di dire che lo Stato dovrebbe capire che la narrazione è un’arma da usare contro le mafie in quanto loro stessi ne portano avanti una basata su paura e omertà”.
Cosa la preoccupa di più?
“Con il rischio di ripetermi è lo Stato assente. Uno Stato che non fa bella figura davanti a una città tappezzata di minacce a un giornalista. Anche perché, diciamocela tutta, Klaus Davi è ininfluente perché la vera partita è la funzione di giornalista che la ‘ndrangheta sta mettendo in discussione. Si tratta di un attacco all’informazione e alla democrazia che non deve assolutamente passare”.
Davanti a tante intimidazioni e minacce, si sente lasciato solo?
“Quando dico che lo Stato non c’è, intendo fare una critica costruttiva. Questo perché quando le Istituzioni sono assenti allora finiscono per fare il gioco della ‘ndrangheta, seppur senza volerlo. Bisogna capire che lo Stato deve comunicare e deve tornare ad avere una forte presenza territoriale perché non può arroccarsi nelle Procure, nelle Prefetture e nei Tribunali, come sta facendo da troppo tempo. Il problema è che a Reggio Calabria le Istituzioni sono sparite da anni e gli ndranghetisti possono fare manifesti contro un giornalista che trae le notizie, talvolta anche commettendo qualche errore, da quel territorio che loro vorrebbero dominare impunemente”.
E la società civile?
“Mi dispiace dirlo ma ultimamente è sparita anche la società civile. C’è stata la sentenza sulla ‘ndrangheta stragista (il 23 marzo scorso, ndr) e fuori dal Tribunale non c’era nessuno. Un silenzio preoccupante che deve far riflettere”.
Nel 2018 tappezzò Reggio Calabria di poster raffiguranti Gino Molinetti con in mano una colt. Due anni dopo le indagini le hanno dato ragione e l’uomo è stato arrestato. Come ha potuto anticipare la giustizia?
“Avevo capito che Molinetti era una figura chiave nonché uno snodo dei piccoli patti Stato-mafia locali. Non a caso è stato accusato, poi scagionato, per l’omicidio del magistrato Scopelliti. Godeva di un rispetto mafioso non indifferente e io non feci altro che scavare su di lui, raccogliendo informazioni che poi hanno trovato riscontri nelle indagini dei magistrati”.