Un futuro sempre più incerto attende le pensioni italiane. Nel 2025, le persone che si apprestano a lasciare il mondo del lavoro dovranno fare i conti con un ulteriore taglio degli assegni previdenziali, frutto della revisione biennale dei coefficienti di trasformazione. Un meccanismo che, secondo le simulazioni della Cgil, sottrarrà mediamente il 2% del valore degli assegni rispetto al 2024.
L’impatto economico dei nuovi coefficienti
Prendiamo un caso concreto: un lavoratore con una retribuzione annua di 30.000 euro e un montante contributivo di 283.971 euro. Chi andrà in pensione a 67 anni nel 2025 vedrà il proprio assegno mensile scendere da 1.250 a 1.225 euro, perdendo oltre 326 euro l’anno. E non è solo una questione di numeri: l’impoverimento progressivo della previdenza rischia di trasformarsi in una condanna per chi, in un sistema già fragile, si trova a dover fare i conti con l’aumento del costo della vita.
La radice del problema è nei coefficienti di trasformazione, parametri tecnici che regolano il calcolo delle pensioni contributive in base alla speranza di vita. Enzo Cigna, responsabile delle politiche previdenziali della Cgil, sottolinea come questi parametri siano stati rivisti al ribasso dopo l’apparente miglioramento del biennio 2023-2024, segnato dagli effetti della pandemia. Ora che le aspettative di vita tornano a crescere, i coefficienti si allineano a una tendenza che impoverisce chi, con anni di lavoro alle spalle, si aspettava una pensione dignitosa.
Le nuove generazioni e il peso del sistema contributivo
Il sistema, tuttavia, non colpisce tutti allo stesso modo. La generazione che ha costruito la propria contribuzione interamente dopo il 1995, e quindi è soggetta al sistema contributivo puro, paga il prezzo più alto. “La revisione dei coefficienti è una lama a doppio taglio”, avverte la Cgil: da una parte si allunga l’età pensionabile, dall’altra si riduce il valore degli assegni.
E intanto non c’è alcuna risposta alla crescente insicurezza previdenziale. La promessa di un sistema pensionistico più equo è stata disattesa, lasciando spazio a interventi che appaiono più come misure tecniche che come soluzioni reali. Le pensioni, già indebolite da riforme passate, diventano il bersaglio di un meccanismo che perpetua l’iniquità.
Un altro esempio emblematico riguarda chi decide di rimandare l’uscita dal lavoro oltre i 67 anni. A 70 anni, un lavoratore con lo stesso montante contributivo nel 2024 avrebbe ricevuto un assegno mensile di quasi 1.397 euro, ma nel 2025 si fermerà a 1.367 euro. Una differenza apparentemente modesta, ma che, su base annua, si traduce in una perdita di quasi 400 euro.
Il sindacato denuncia da tempo l’assenza di una strategia complessiva per la previdenza. Le politiche attuali, ancorate a calcoli matematici e a un’idea di sostenibilità che ignora le difficoltà quotidiane dei lavoratori, non affrontano le disuguaglianze strutturali del sistema. La riduzione dei coefficienti è solo l’ultima di una serie di misure che alimentano la sfiducia verso un welfare già colmo di falle.
Nel silenzio assordante delle istituzioni, le persone restano sole di fronte a un futuro che diventa ogni giorno più incerto. La Cgil avverte: continuare su questa strada significa compromettere ulteriormente il patto sociale che dovrebbe garantire dignità a chi ha lavorato una vita intera. Ma l’allarme sembra cadere nel vuoto, lasciando ai lavoratori l’onere di una sicurezza sempre più precaria. Una pensione che cala non è solo un numero: è il simbolo di un Paese che ha perso il senso della giustizia sociale.