La premier la definisce “la madre di tutte le riforme”, per le opposizioni è un pasticciaccio che azzoppa Parlamento e Capo dello Stato. Stiamo parlando della riforma costituzionale che prevede l’elezione diretta del premier che ha ricevuto ieri il via libera dal Consiglio dei ministri. Sulla norma anti- ribaltoni, in caso di crisi di governo, è venuto fuori un compromesso tra gli alleati ma la partita non è chiusa.
Il testo approvato stabilisce che il Capo dello Stato può incaricare un parlamentare candidato nella stessa coalizione del premier dimissionario o sfiduciato, ma solo una volta. Se fallisce anche il piano B, il presidente della Repubblica ne prende atto e scioglie le Camere. Un’aggiunta che, secondo i più critici, è un ulteriore colpo di accetta ai poteri del Quirinale. Oltre che rafforzare, implicitamente, il ruolo del premier subentrante: è lui che diventa cruciale per lo scioglimento del Parlamento, avendo in mano l’unica e ultima chance per la sopravvivenza del governo.
La partita
Fosse stato per Meloni in caso di sfiducia si sarebbe dovuto subito ritornare alle urne. La leader di FdI lo ammette apertamente e lascia prefigurare pure che la battaglia non è chiusa. “Io ero favorevole” alla soluzione “simul simul”, tornare subito alle urne in caso di sfiducia, dice. Poi si è optato per una soluzione che “consentisse in casi estremi di mantenere la possibilità di terminare la legislatura. Per me è una soluzione che va comunque bene, ma se il Parlamento volesse ragionare” della prima opzione “non troverebbe la mia opposizione”.
La riforma opera su cinque versanti. Il primo punto stabilisce appunto l’elezione diretta del premier contestualmente alle elezioni per le Camere. Si prevede che il premier sia eletto nella Camera per la quale si è candidato e che, in ogni caso, sia necessariamente un parlamentare. Il secondo fissa in cinque anni la sua durata dell’incarico. Terzo è la norma anti-ribaltoni. Quattro: affida alla legge la determinazione di un sistema elettorale delle Camere che, attraverso un premio assegnato su base nazionale, assicuri al partito o alla coalizione di partiti collegati al premier il 55 per cento dei seggi parlamentari.
Quinto e ultimo punto: supera la categoria dei senatori a vita di nomina del Presidente della Repubblica, precisando che i senatori a vita già nominati restano comunque in carica. Sul premierato, poi, potrebbe anche aprirsi un nuovo fronte: quello sul limite dei mandati del presidente del Consiglio. La proposta di legge, che porta la firma della ministra Elisabetta Casellati, specifica che il capo del governo viene eletto dai cittadini “per la durata di 5 anni”. Nient’altro.
Non aggiunge se e per quanto tempo potrà restare ulteriormente a Palazzo Chigi. Il senatore dem Dario Parrini evidenzia la “gravità” della mancanza anche nel confronto con il resto d’Europa. E ricorda che “in tutti i 14 Paesi Ue, in cui vige l’elezione nazionale diretta di una persona, il limite dei due mandati esiste nella Costituzione”.
“Il premierato meloniano è una riforma pasticciata e approssimativa. Una scelta che non favorirà la governabilità ma accentuerà gli squilibri del sistema”, ha dichiarato dal M5S, Roberto Fico. Sullo stesso tenore la leader Pd. “È una riforma pasticciata e pericolosa perché indebolisce nuovamente il Parlamento, è una riforma che limita le prerogative del Presidente della Repubblica e che smantella la forma parlamentare”, ha detto Elly Schlein. “Un mostro giuridico istituzionale di fronte ad un Parlamento già ampiamente umiliato dal ricorso continuo alla decretazione d’urgenza e al voto di fiducia, un Parlamento svuotato di ogni funzione”, ha detto il segretario nazionale di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni.