Il trucco c’è, ma non si vede. Nel senso che il Ponte sullo Stretto di Messina, come si sa, non è mai stato costruito. Nemmeno poggiata una pietra. La società che c’è dietro, però, è ancora in piedi. Benvenuti in una delle storie più surreali della Repubblica italiana. E a dirlo è la magistratura contabile che, dopo due relazioni in cui contestava il fatto che la società non fosse stata ancora chiusa, in questi giorni ha pubblicato un terzo report in cui già il titolo è indice di quanto la vicenda abbia assunto tratti grotteschi: “La problematica chiusura della liquidazione di Stretto di Messina spa”. Come dire: non siamo capaci di chiudere una società che, di fatto, è inattiva.
LA LUNGA STORIA – Ma partiamo da principio: dopo vari tira e molla, è stato il Governo di Mario Monti ad aver posto la parola fine al mega-progetto molto caro, negli anni passati, a Silvio Berlusconi. È infatti con un decreto legge del 2012 che si è stabilito che “per lo svolgimento delle attività liquidatorie è nominato un commissario”, che avrebbe dovuto concludere le operazioni entro, “e non oltre”, un anno dalla nomina. Poiché questa è avvenuta il 15 aprile 2013, il termine per la liquidazione è ampiamente scaduto. Da oltre quattro anni.
Certo, la partita non è facile considerando la posta in gioco: dal 1981 (anno di nascita della società) al 2013, i cosiddetti “oneri sostenuti per lo sviluppo del progetto dell’opera”, come si osservava qualche anno fa sempre la Corte dei conti, hanno sfondato quota 300 milioni, per come calcolato da Vincenzo Fortunato, commissario liquidatore della Sdm. Il ritardo, però, resta evidentemente colossale. Anche perché secondo i magistrati, al di là delle pretese della società che ovviamente si dice contraria alla chiusura “nella convinzione che, se il commissario la disponesse, i creditori potrebbero azionare nei confronti dei soci le loro pretese”, una possibile ma concreta via di uscita sarebbe agevolata da un intervento normativo mirato.
E allora la domanda sorge spontanea: come mai in questi quattro anni di ritardo nessuno ha mai provveduto? Sembrerà folle, ma semplicemente perché non è stato trovato un accordo. Le conclusioni cui giunge la Corte sono tragicomiche: ognuna delle amministrazioni competenti “ha prospettato soluzioni differenziate, peraltro tutte allo stato di intenzione” che ora rischiano di prolungare l’incredibile stallo. Nel dettaglio, nel corso degli ultimi anni il ministero dell’Economia ha proposto l’apertura di un tavolo tecnico, rimandando però l’iniziativa alla presidenza del Consiglio che, nel frattempo, ha dichiarato di “non aver altri atti da adottare”. Così Palazzo Chigi ha a sua volta scaricato oneri e onori sul Mef e sul ministero delle Infrastrutture che, dal canto suo, ha preferito scaricare la patata bollente sul commissario liquidatore. Come se non bastasse, sul punto si è pronunciata anche Rete ferroviaria italiana che ha evidenziato “l’opportunità di svolgere una valutazione prognostica sulla durata del contenzioso”. Semmai occorresse più tempo.
SPRECHI INUTILI – A due anni dalle sollecitazioni (inascoltate) della Corte, però, qualcosa ora si sta muovendo. Lo scorso 2 ottobre, infatti, la presidenza del Consiglio e il ministero delle Infrastrutture “si sono impegnati per una concordata soluzione normativa”. Vedremo cosa accadrà. Una soluzione dev’essere trovata a stretto giro, però. La rapida chiusura della società, infatti, è “necessaria anche per l’estinzione del contenzioso avanzato dalla società nei confronti delle amministrazioni statali, contrario ai principi di proporzionalità, razionalità e buon andamento”. Ma si rende necessario anche per interrompere i “gravosi oneri” per il mantenimento della struttura, considerata “l’assenza di attività”. Eppure, dice la Corte, nel 2017 la struttura ha avuto un costo che si aggira intorno al milione di euro. Nel 2016 ci è costata 1,5 milioni; l’anno prima 1,8. Più di quattro milioni di costi inutili nel giro di tre anni. Tutto perché i Governi passati non sono stati capaci di sedersi attorno a un tavolo.