La prima fake news dell’era Trump 2.0 non ha atteso nemmeno l’insediamento del nuovo presidente. A poche ore dalla chiusura delle urne, il Washington Post ha lanciato una bomba mediatica destinata a rivelarsi un petardo bagnato: una presunta telefonata tra Donald Trump e Vladimir Putin, con tanto di dettagli su contenuti e intermediari eccellenti. La notizia aveva tutti gli ingredienti perfetti: il protagonismo di Trump che bypassa i canali diplomatici ufficiali, la presenza di Elon Musk come mediatore informale, e persino un presunto piano di pace per l’Ucraina. Troppo bello per essere vero. E infatti non lo era, come ha prontamente chiarito il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov, definendo la notizia “una pura invenzione”.
La vicenda è emblematica del nuovo corso della comunicazione politica nell’era della post-verità. Il Washington Post, testata di proprietà di Jeff Bezos, ha pubblicato la notizia senza verifiche incrociate, mentre gli altri media occidentali l’hanno ripresa acriticamente, seguendo quella che ormai è diventata una prassi consolidata: se lo dice il Post, deve essere vero. Quello che emerge è un cortocircuito mediatico in cui la necessità di anticipare le mosse del nuovo corso trumpiano si scontra con la realtà dei fatti diplomatici. In questo vuoto informativo, proliferano “si dice” e indiscrezioni che più che raccontare la realtà, sembrano volerla plasmare secondo aspettative e timori precostituiti. Ma la prima fake news dell’era Trump 2.0 potrebbe essere solo l’antipasto di una lunga stagione in cui distinguere il vero dal verosimile diventerà sempre più complesso. Una cosa è certa: il giornalismo dovrà fare i conti con la propria credibilità, ancora una volta.