Inutile girarci intorno. Dopo commissariamenti vari, e un anno e mezzo di amministrazione straordinaria, l’Ilva rischia di diventare una delle promesse mancate del governo guidato da Matteo Renzi. Per carità, ora si confronteranno le due proposte di rilancio arrivate sul piatto, ovvero quella della cordata Am Investco Italy (con ArcelorMittal e Marcegaglia) e quella di AcciaItalia (con Arvedi, Cdp e la Delfin di Leonardo Del Vecchio). Ma la procedura, secondo gli osservatori più attenti, potrebbe durare anche un anno. Insomma, percorso non facile. Semmai, dopo l’ufficializzazione delle offerte, ci sarebbe da chiedersi perché la Cassa Depositi e Prestiti, controllata dal Tesoro, abbia deciso di far parte della cordata Arvedi-Delfin. La domanda si pone anche perché nella fase preliminare entrambi i raggruppamenti avevano chiesto l’alleanza con il colosso pubblico.
IL TEMA
Non si può del resto nascondere che, essendo la Cassa depositi e prestiti di fatto controllata dal Governo (seppur con una quota di minoranza in mano alle fondazioni ex bancarie), il suo intervento a fianco di Arvedi-Delfin possa essere una spia delle preferenze maturate a palazzo Chigi. Da qui la domanda: perché Arvedi-Delfin sì e ArcelorMittal-Marcegaglia no? A quanto pare un elemento importante è rappresentato dall’italianità della cordata: Arvedi, gruppo siderurgico con base a Cremona, e la Delfin dell’italiano Del Vecchio. In pratica ci sarebbe un tasso di “italianità” che al momento, anche in funzione della comunicazione politica, avrebbe spinto Cassa depositi a preferire questo raggruppamento a quello composto dal colosso franco-indiano ArcelorMittal e dal gruppo Marcegaglia. Naturalmente questo non significa che i giochi siano fatti. Dal canto suo, infatti, il gruppo Marcegaglia è convinto che da un punto di vista industriale tra le due proposte non ci sia paragone. E la dimostrazione sarebbe nel peso percentuale delle varie componenti all’interno delle due cordate. In quella più “italiana” l’apporto industriale di Arvedi si ferma al 22,2%, mentre è preponderante l’apporto finanziario con Cassa depositi e prstiti al 44,5% e Delfin al 33,3%. Nell’altro caso invece la quota “industriale” di ArcelorMittal, primo produttore mondiale di acciaio, è dell’85%, con Marcegaglia, che trasforma acciaio, al 15%. Per questo è già partito il lavorìo diplomatico del gruppo guidato dall’ex presidente della Confindustria nonché attuale presidente Eni, Emma Marcegaglia, e dal fratello Antonio Marcegaglia. Il messaggio che si tenterà di far arrivare è chiaro: parlando di industria, il rapporto che c’è tra Arvedi e ArcelorMittal è lo stesso che passa tra una formica e un gigante. Poi però c’è anche la variabile uomini.
GLI ALTRI FATTORI
Non è una novità, per esempio, che un “autocandidato” al ruolo di amministratore delegato della nuova Ilva sia l’ex numero uno di Enel ed Eni Paolo Scaroni. Il quale, come aveva raccontato La Notizia (vedi il numero del 24 maggio), gode dell’appoggio dell’ad della Cassa Depositi, Claudio Costamagna, e di una affinità geografica veneta con Del Vecchio: quest’ultimo ha fondato Luxottica ad Agordo, l’ex amministartore delegato dell’Eni è nato a Vicenza. Inoltre entrambi hanno incrociato le loro strade in quel delle Generali. In più c’è un altro filo che porta a Scaroni e alla Cassa Depositi e Prestiti. Dopo aver fallito la partecipazione alle gare per le commesse del Tap, il gasdotto che approderà sulle coste della Puglia, l’Ilva ha incassato qualche appalto minore dalla Snam, la società di gestione della rete del gas controllata proprio dalla Cassa depositi e prestiti. A capo della medesima Snam, in qualità di amministratore delegato, è da poco approdato Marco Alverà, manager molto stimato da Scaroni che ne favorì l’ascesa in Eni. Insomma, anche i fili che portano ai possibili protagonisti della vicenda parrebbero far pendere la bilancia delle preferenze di Governo verso la cordata Arvedi-Cdp-Delfin. Ma il gruppo Marcegaglia è già al lavoro per far sì che la procedura che ora si apre giunga a un esito diverso.