“È successo un po’ per caso. Era iniziata la collaborazione di Francesco Marino Mannoia nel novembre del 1989, in forma segretissima. Ma cosa nostra lo venne a sapere e fece una strage a Bagheria (il 23 novembre 1989, ndr) in cui furono uccise la madre, la sorella e la zia del pentito. Si rivela una stagione di grande timore da parte di tutti anche dell’avvocato di Mannoia che mi chiese di sostituirlo e farmi carico del suo assistito”.
E iniziata così la carriera di Luigi Li Gotti, classe 1947, “l’avvocato dei pentiti”, che annovera nell’elenco dei suoi assistiti ex uomini d’onore del calibro di Tommaso Buscetta, Totuccio Contorno, Giovanni Brusca, Francesco Marino Mannoia e Gaspare Mutolo. “Incontrai il giudice Giovanni Falcone che mi chiese di accettare di difendere Mannoia altrimenti sarebbe rimasto senza avvocato. E da quel momento chiamavano tutti me. Soprattutto dopo le stragi del ’92 quando cominciarono a fioccare i pentiti”.
Ha difeso solo pentiti di cosa nostra?
“Principalmente sì, pochissimi calabresi con i quali ho avuto qualche difficoltà perché sono modelli organizzativi e comportamentali molto diversi”.
Quanto ha inciso difendere dei pentiti nella sua vita privata?
“Ho passato anni in cui sentivo parlare di morti dalla mattina alla sera. Non ho mai subito minacce dirette. Lo Stato, però, ha ritenuto di mettermi sotto protezione dal ’94 al 2010 con periodi di interruzione”.
Con Giovanni Brusca ha parlato del caso di Giuseppe Di Matteo, il bambino sciolto nell’acido?
“Brusca iniziò a collaborare nell’agosto del ’96, non c’era ancora questa accusa. Arrivò dopo alcuni mesi. Il racconto delle modalità non lo ha mai fatto, perché non le conosceva. Il ragazzino era stato sequestrato ed era ancora vivo quando uscì la sentenza per l’omicidio di Ignazio Salvo, che condannò Brusca all’ergastolo in primo grado. Fu allora che disse a Giuseppe Monticciolo di ucciderlo. Gli esecutori materiali furono Vincenzo Chiodo, Giuseppe Monticciolo ed Enzo Brusca, fratello di Giovanni”.
C’è differenza di trattamento tra appartenenti a cosa nostra o ad altre criminalità organizzate?
“No, sono tutti uguali. Logisticamente infatti in altri Paesi c’è un’ampiezza di spazi a disposizione che in Italia non c’è”.
Si spieghi meglio.
“L’Italia è più piccola della Florida. Se pensiamo ai nostri collaboratori che sono stati in America, loro avevano uno spazio immenso a disposizione. Pensiamo a Totuccio Contorno in Canada, Buscetta e Mannoia negli Stati Uniti. Non c’erano problemi nel cercar loro un posto per reinserirli. L’amministrazione Usa era molto ambita per questo motivo, perché è meno asfissiante rispetto all’Italia. Il controllo è del sociale”.
Del sociale in che senso?
“Nel senso che si viene inseriti in una collettività ma attraverso dei comportamenti adeguati a quella collettività perché qualunque diversità viene subito attenzionata, cioè tutti vigilano”.
Un esempio?
“Buscetta. Una sola persona conosceva la località in cui soggiornava. Si doveva necessariamente passare attraverso questa persona che abitava a 450 km di distanza”.
Chi era?
“Un agente dell’Fbi in pensione, si chiamava Anthony Petrucci, il governo americano lo aveva richiamato conferendogli questo compito. Quando andavamo per gli interrogatori indossava sempre una giacca rossa, si sedeva in un angolo e restava in silenzio. Io non l’ho mai sentito parlare”.
In questi giorni si è parlato molto del caso Brusca, lei lo ha seguito da vicino.
“Brusca era l’uomo di Capaci, la sua difesa è stata molto impegnativa. Per ottenere lo status di collaboratore abbiamo impiegato 4 anni, cosa mai successa. è stato ammesso a marzo del 2000 ma ha iniziato a collaborare ad agosto del ’96 riscontrando anche diversi contrasti con la magistratura. C’erano delle perplessità da parte delle tre procure (Palermo, Caltanissetta, Firenze)”.
In quei momenti che rapporti aveva con il suo assistito?
“Io gli ho sempre detto che deporre equivale a camminare: il piede si mette sul terreno che non è franoso, se il terreno è franoso il passo è sbagliato. Quindi gli dissi “mi raccomando quando lei parla con i magistrati cerchi di mantenersi sul concreto”.
Per seguire Buscetta, invece, dovette andare più volte negli Stati Uniti?
“Sono stato in America nel ‘93, dopo le stragi. Si parlò di Andreotti e fu un passaggio particolarmente importante. Lui aveva un programma di protezione che non è mai stato ufficializzato negli Stati Uniti perché era stato inserito nel solo programma di protezione italiano nel ‘92. Prima, però, veniva comunque tutelato”.
Come funziona il programma di protezione in America?
“Era un vero e proprio contratto di 40 pagine che prevedeva tutto ciò che riguardava il suo quotidiano. Addirittura mi ricordo di un capitolo che parlava delle collezioni di farfalle. Bisognava comunicare alla Marshal se si aveva una collezione di farfalle perché poteva essere un punto di scopertura del programma di protezione”.
Ricorda di qualche episodio curioso in America?
“Una mattina Mannoia doveva essere interrogato ed era molto nervoso. Mi disse: ‘Io non parlo più, mi hanno offeso i Marshal. Io ho avuto bisogno di fermarmi per prendere un medicinale in farmacia e loro si sono infastiditi’…”.
Lei cosa gli disse?
“Io cominciai una lunga trattativa, noi eravamo arrivati tutti dall’Italia e ce ne saremmo dovuti andare a mani vuote. Non riuscii a convincerlo. Allora il magistrato americano gli fece avere un incontro con il Marshall interessato”.
Cosa si dissero?
“Si guardavano in cagnesco. Mannoia gli contestò il comportamento e il Marshal negò. Allora Mannoia gli disse: ‘Io ho fatto qualche cosa per meritare un’offesa?’. E il militare rispose: “No, assolutamente”. Allora il mio assistito proseguì: ‘E se qualcuno mi avesse ugualmente offeso, sarebbe una cosa giusta o ingiusta?’. Il Marshall non ebbe dubbi: ‘Ingiusta’. Mannoia: ‘E se questa persona mi avesse ugualmente fatto un’offesa ingiusta sarebbe un cornuto o no?’. Il militare rispose: ‘Sì’. E Mannoia concluse: ‘Allora sono soddisfatto’. Poi finalmente parlò”.
La questione finì lì?
“No, il pomeriggio eravamo all’incontro con i Marshall per chiedere chiarimenti su alcuni punti del programma. Ci vennero a prendere con una macchina, con delle poltroncine molto comode ma senza luci, tutto buio, senza maniglie sugli sportelli. C’eravamo io, Mannoia, Gratteri, che faceva parte della Dia, ed il responsabile delle Dia italiana a Washington. Un viaggio che non finiva mai. Una volta fermi passarono 4 o 5 minuti. Nessuno veniva ad aprirci”.
Che cosa accadde?
“Quando finalmente ci aprirono ci rendemmo conto che eravamo in un garage di qualche stabile. Ci portarono in un ufficio senza finestre, senza telefono, senza niente. Arrivò il nostro interlocutore. Indovini un po’ chi era? Quell’agente dei Marshal che si era preso del cornuto”.
Cosa vi disse?
“Non era in grado di darci delle risposte. Iniziò a leggere le 40 pagine di programma, passavano le ore senza alcuna interlocuzione. Ci prese per sfinimento e dopo ore dissi che rinunciavamo ai chiarimenti”.
Vi riportarono indietro?
“Sì, salimmo di nuovo sul furgone e al ritorno impiegarono solo un quarto d’ora di tragitto”.
Un finale amaro quindi?
“Non del tutto perché il giorno successivo venimmo convocati dal capo dei Marshal con cui abbiamo avuto un incontro molto esaustivo. Lo sgarro era evidentemente per ‘apparare’ i conti con Mannoia”.
Tornando all’Italia, ritiene che la legge sui collaboratori di giustizia vada cambiata?
“Assolutamente no. Il trattamento premiale bisogna lasciarlo perché si spera sempre ci possa essere un nuovo contributo”.
Cosa prevede, nello specifico, il programma di protezione?
“Uno stipendio di circa 1000 euro, il cambio di generalità, il cambio di territorio e il controllo ravvicinato quotidiano”.