Orsini e il fascismo: la dura legge dei talk show, soprattutto in tempi di guerra, impone di alzare il livello dello scontro per non fare perdere l’appetito ai telespettatori a casa. Così accade che il sociologo professore della Luiss Alessandro Orsini alla fine si sia innamorato talmente tanto di se stesso che la guerra venga buona solo come sfondo di un’interminabile autocelebrazione.
Orsini e il fascismo: trash talk
La regola dei talk televisivi, del resto, pretende che il dibattito sia una continua polarizzazione, massimizzando i personaggi (e quindi a ricaduta i contenuti) perché il duello risulti facile e digeribile nelle ore del dopo cena.
A Cartabianca, in collegamento con Bianca Berlinguer, il professore Orsini, in preda a un picco di narcisismo, per giustificare la sua contrarietà all’invio di armi (tesi legittima che meriterebbe almeno il rispetto di chi decide di abbracciarla, tanto per cominciare) racconta di essere “in contatto con famiglia a Mariupol” che gli scrivono tutti i giorni: “Mi dicono ‘Professore, parli – spiega Orsini -. Voi italiani siete impazziti a dare armi’. Queste donne che mi scrivono con bambini morti non hanno voce, la propaganda della Nato ci fa credere che tutte queste persone vogliano la guerra. Ci sono migliaia di mamme, bambini e genitori che non vogliono la guerra”. Eccola la regola dei talk show: non si sostiene la propria idea portando elementi e dati ma ci si riduce a offrire la propria testimonianza personale, mettendo davanti l’io perfino alla guerra e alle sue vittime.
Paragoni arditi
Se possiamo almeno dubitare sul fatto che le madri dei figli di Mariupol abbiano eletto a proprio portavoce un professore italiano praticamente sconosciuto fino a qualche settimana scrivendogli appassionatamente dai bunker pochi dubbi ci sono sulla frase in cui Orsini ci fa sapere che “prima del 1945 in Italia non c’era una democrazia liberale – ha detto – eppure mio nonno ha avuto comunque una vita felice”. Orsini ha poi aggiunto: “Sono un ricercatore sul campo e vi posso garantire che in Paesi mediorientali, come l’Oman, c’è un sultanato ma con una società fondata sulla famiglia”.
Gli crediamo sulla parola, suo nonno avrà avuto l’avventura di poter vivere un fascismo felice perché evidentemente non apparteneva a nessuna delle minoranze discriminate e vessate dal regime di Benito Mussolini. Ma Orsini, che è un “ricercatore sul campo”, potrebbe alzare il telefono e chiedere a Liliana Segre cosa abbia significato il fascismo. Siamo certi che abbia anche tutti gli elementi storici per capire che la felicità del nonno sia costata parecchio agli italiani che di Mussolini si sono liberati rendendo l’Italia una democrazia finalmente libera.
Colpo ad affetto
Il colpo ad effetto ha comunque funzionato, accendendo gli animi e scaldando il dibattito di cui il personaggio “Orsini” (che ormai ha poco a che vedere con l’accademico) si nutre per aumentare la sua popolarità (o impopolarità, che in fondo di questi tempi è la stessa cosa). Orsini non può non sapere che Mussolini ha represso in Italia diverse libertà come quella di stampa, la possibilità di sciopero, di assembrarsi e di creare partiti politici. Se il nonno è scampato a tutto questo buon per lui ma per ogni bambino felice quanti padri sono passati dalle purghe di via Tasso? La regola dei talk show impone (da tutte le parti) di proporre esperienze personali e testimonianze dirette come paradigma per una lettura analitica e complessiva di enormi fasi storiche: il copione funziona ma l’etica dell’operazione è quantomeno discutibile.
Normalizzazione
Infine c’è il punto cruciale: se per difendere Putin serve addirittura normalizzare il fascismo (peraltro in prima serata, su una rete della televisione pubblica, in prossimità del 25 aprile) significa che nemmeno i putiniani più accesi possono negare che il regime instaurato dal presidente russo sia qualcosa che non ha niente a che vedere con le democrazie liberali che l’Occidente, seppur a fatica, prova a costruire e a tenere in piedi. Del resto anche in Russia ci sono futuri nonni che sono felici: sono i nipoti e i figli degli oligarchi a cui Putin ha regalato pezzi di Stato per arricchire loro e se stesso. Sono quelli che hanno il fegato di chiamare ciò che accade in Ucraina “operazione speciale”. Anche in questo caso tanto a pagare sono gli altri.