“Con tutto il rispetto”, diciamo. E in quel momento sappiamo già che stiamo per dire qualcosa di irriguardoso, offensivo, sprezzante. Il “con tutto il rispetto” è diventato il visto d’ingresso nel territorio delle nefandezze, il timbro che ci autorizza a oltrepassare la frontiera della decenza. L’Istituto Treccani ha scelto “rispetto” come parola dell’anno e forse non poteva essere più precisa nel fotografare l’ipocrisia del nostro tempo. Perché il rispetto è diventato esattamente questo: una formula vuota che usiamo come scudo per proteggerci mentre facciamo esattamente il contrario. “Col dovuto rispetto”, e poi giù a martellare. “Rispettosamente”, e poi via a demolire.
Come quei killer gentiluomini che si inchinano prima di sparare. Il rispetto è la nostra assoluzione preventiva. È la monetina che gettiamo nel cestino delle offerte prima di commettere peccato. È il “non è per fare polemica” che anticipa la polemica più velenosa. È quel “detto con rispetto” che apre la strada alle peggiori mancanze di rispetto. Siamo diventati così bravi a usare il rispetto come grimaldello per scardinare il rispetto che ormai non ci accorgiamo nemmeno più della contraddizione. Lo pronunciamo a mo’ di formula magica, come se bastasse nominarlo per essere autorizzati a dimenticarlo subito dopo. Come quei politici che prima citano la Costituzione e poi la calpestano, che invocano le istituzioni mentre le svuotano, che parlano di dialogo mentre alzano muri. È la parola trasformata in alibi. Il lasciapassare per ogni bassezza. Il salvacondotto per navigare nel mare dell’arroganza. “Con tutto il rispetto”, e poi affondiamo. Con rispetto, naturalmente.