Sì, no, astensione: queste le alternative che oggi e domani al Consiglio europeo si spalancano davanti a Giorgia Meloni nella partita sulle nomine dei vertici comunitari. Una partita da cui è stata completamente tagliata fuori.
Checché il presidente della Repubblica non lo ritenga corretto. “Non si può prescindere dall’Italia”, ha detto Sergio Mattarella, nel corso della colazione di lavoro al Quirinale con la premier ed alcuni ministri, in vista del Consiglio europeo.
Ma proprio nel corso delle comunicazioni in Parlamento di Meloni, alla vigilia del vertice, l’orientamento del governo emerso sembra essere fermo sul no o al massimo sull’astensione.
Le invettive di Meloni contro i paesi europei che l’hanno snobbata
Non si possono interpretare in maniera diversa le invettive lanciate dalla premier contro i leader dei paesi europei, dalla Francia alla Germania, che hanno messo a punto l’accordo. Di cui Meloni contesta merito e metodo. Con l’Italia potrebbero dire no anche Slovacchia e Ungheria.
Il blitz di Parigi e Berlino e dei negoziatori europeisti ha allontanato Meloni dalla maggioranza Ursula con un rischio concreto: se all’interno del Consiglio europeo i margini di manovra della premier sono nulli, in Plenaria i voti degli eurodeputati di FdI potrebbero essere decisivi per il bis di von der Leyen.
Fonti Ue hanno spiegato che, fino all’ultimo, sarà cercato un consenso unanime sui top jobs, cercando di escludere Paesi chiave come l’Italia.
L’intesa tra i sei negoziatori – Donald Tusk e Kyriakos Mitsotakis per il Ppe, Pedro Sanchez e Olaf Scholz per i Socialisti, Emmanuel Macron e Mark Rutte per i Liberali – ha avuto anche l’obiettivo di ribadire che le pedine del potere comunitario, a dispetto dell’ascesa delle destre, resta nelle mani dei tre partiti filo-Ue.
Non a caso, nell’annunciarla, i negoziatori hanno sottolineato che è stata siglata “in conformità dei Trattati”.
E i Trattati disciplinano che i tre top jobs siano scelti sulla base del risultato elettorale, senza tener conto di successivi passaggi parlamentari, gli stessi che, nei giorni scorsi, hanno portato il gruppo Ecr a superare Renew e collocarsi al terzo posto all’Eurocamera. Un punto, quest’ultimo, fortemente rivendicato da Meloni.
Il terzetto dei top jobs deciso senza Meloni
Il terzetto individuato dai negoziatori vede Ursula von der Leyen del Ppe alla guida della Commissione Ue, la premier estone liberale Kaja Kallas a cui affidare la politica estera comunitaria. Mentre il socialista portoghese Antonio Costa capitanerebbe i lavori del Consiglio europeo. Un trio al quale con tutta probabilità si dovrebbe affiancare la maltese Roberta Metsola – in quota Ppe – per il bis all’Eurocamera.
Ma appunto sulla carta. Meloni è peraltro stretta tra due fuochi. Rappresentati dai suoi alleati divisi in Europa. Da una parte Forza Italia.
“Domani (oggi, ndr) Meloni parlerà. Sa quale è la nostra posizione, immagino sappia quale sia quella della Lega. Noi voteremo sì al pacchetto attuale, non credo che l’Italia possa votare no”, dice il ministro degli Esteri e vicepremier azzurro Antonio Tajani.
“Bisogna vedere come è la trattativa. Le trattative vere – aggiunge – devono ancora cominciare. È ancora lunga la partita. È chiaro che Meloni deve puntare i piedi. Ha ragione a dire che ci può anche essere una decisione a maggioranza, ma non si può tenere fuori un Paese come l’Italia. Meloni non è solo il capo di Ecr, è anche il presidente del Consiglio di un governo dove c’è anche il Ppe dentro”.
Dall’altra la Lega. “E’ vergognosa l’arroganza dei burocrati europei che in queste ore si stanno spartendo le poltrone nonostante il voto popolare abbia bocciato le politiche di questa commissione. L’inciucio tra popolari e socialisti non può essere il futuro, è un’offesa all’Italia, ai francesi che voteranno tra poco e agli europei che hanno chiesto un cambiamento”, dichiara il vicepremier leghista e ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini.