da New York
Massimo Magliaro
Si chiama “flood the zone”, affoga (di parole) il terreno. E’ la formidabile campagna mediatica che Obama ha fatto partire negli Usa (il Segretario di Stato, John Kerry, nella sola giornata di ieri ha partecipato a ben cinque dibattiti in tv) e in tutto il mondo per provare a convincere cittadini, parlamentari, analisti, militari. In altre parole a recuperare il terreno perduto. Che è tanto, tantissimo. Ma il vero tema di questi giorni è la impressionante solitudine del presidente. Il repubblicano Rush Limbaugh è stato uno dei primi a parlarne sulla CBS. E gli sono venuti dietro tutti.
La rivolta delle divise
Uomo solo, ma non al comando. Solo nel senso proprio di solo.
C’è un fatto che sta emergendo in questo ore sui social network ed è la rivolta dei militari americani contro un eventuale attacco alla Siria. Piovono a raffica foto di soldati che si coprono il volto con cartelli sui quali campeggiano slogans contro Al-Qaeda (non mi sono arruolato nell’Esercito per fare l’alleato di Al-Qaeda, ad esempio), contro gli errori finora compiuti dall’Amministrazione a proposito delle primavere arabe, contro le guerre cosiddette umaniterie. Hanno contate fino a 16mila foto. Mai avvenuto prima. Uomo solo davanti alla pubblica opinione del suo Paese che, pure, lo aveva rieletto pochi mesi fa anche perché, quando era senatore, fu uno dei pochissimi che votò contro l’intervento militare in Iraq. Dunque poteva essere una garanzia di ascolto della stanchezza degli americani per le guerre che li vedono impegnati nel mondo con una montagna così di vittime e un’altra così di soldi buttati all’aria.
La crisi di alleanze
Uomo solo davanti agli alleati. Gli inglesi, in primo luogo. Gli storici alleati inglesi che dai tempi lontani di Winston Churchill erano sempre stati al fianco di Washington per business, per vocazione, per lingua, per religione e che questa volta gli hanno voltato le spalle nel tempio sacro della democrazia, la Camera dei Comuni. tedeschi, i quali si sono mossi in tutto il dopoguerra sulla linea tracciata da Konrad Adenauer e difesa nel tempo da Erhard, Strauss, Brandt, Kohl. Anche loro, magari per calcoli elettorali vista la imminenza del voto in Germania, hanno voltato le spalle alla Casa Bianca. E poi gli italiani (per domenica 8 la Farnesina ha organizzato a Roma un incontro dei ministri degli Esteri arabi e del Mediterraneo), gli spagnoli, i canadesi, i polacchi, i greci. E la Nato, la Organizzazione degli Stati Americani (Oea) che raggruppa il continente sudamericano, la Lega Araba. E l’Onu bloccato. Un uomo solo, Obama. Ieri il “Washington Times” ha rivelato che dopo l’allocuzione nel “giardino delle rose” alla Casa Bianca il presidente se ne è andato a giocare a golf senza i collaboratori del suo staff né gli amici del partito democratico o del Congresso. Si voleva distendere dopo la tensione delle ore precedenti. Ha ragione Emil Luttwack quando dice che in realtà Obama sta pregando Dio per farsi dire di no dal Congresso, sì da togliersi dall’imbarazzo dell’attacco in nome della volontà popolare?
I poteri forti
Certo, quando si torna a parlare, cifre alla mano, degli utili che il complesso militare-industriale americano potrebbe fare con una nuova guerra c’è da tremare. Kurt Nimmo, uno degli analisti di cose militari più autorevoli, ha scritto che “il gioco è delle corporazioni transnazionali e delle banche internazionali che puntano a fare osceni profitti ma ormai anche ad un potere politico mai visto”. In effetti se negli Usa c’è un sistema di potere che tiene strettamente unite industrie militari, alti comandi delle forze armate e, in ultimo, pezzi della politica, in Francia, l’altro Paese spericolatamete proiettato verso il conflitto, c’è la più grande azienda estrattiva nazionale, la Total, a dettare tempi e modi della politica estera (v. il caso-Libia, quando e dove le Total puntò alla guerra per sottrarre all’Eni il mercato di quel Paese).
Ora che i tempi dell’intervento si allungano si hanno i nuovi dati del greggio. Sui mercati asiatici è ribassato, passando da quota 112 della scorsa settimana (il massimo degli ultimi due anni) a 104,2 di ieri. Questi numeri sono il termometro della febbre economico-finanziaria di un Paese o di un intero sistema. Ma la solitudine di Obama è sottolineata dall’assordante silenzio di Hillary Clinton che fino a qualche ora fa faceva il mestiere che oggi è di Kerry e che domani potrebbe candidarsi alla Casa Bianca al posto dello stesso Obama. Se quella di Obama fosse una crociata condivisa la Clinton l’avrebbe subito cavalcata. Invece no. Tace lei. Tace lui, Bill Clinton che, pure, aveva accompagnato Obama in parecchie avventure mediatiche e politiche. Tace la Allbreight, che di guerre americane nel mondo si intende. Tacciono Bush padre e Bush figlio, Rumsfeeld, Powell, Rice (quella vera).
I silenzi dei democratici
Ma quel che più conta è che tace il partito di Obama. I democratici, quelli più autorevoli, non parlano. E se la conseguenza finale di questa avventura fosse il fallimento in culla della Conferenza di pace prevista a Ginevra? Cioè il perpetuarsi senza fine di un conflitto che dal marzo 2011 ha fatto, ufficiali, 110mila morti, di cui 40mila civili, 22mila ribelli e qaedisti e 45mila governativi? Per uno che, un mese dopo la rielezione, vince il Premio Nobel per la pace nel mondo si potrebbe un bel problema: restituirlo.