Questa volta Angelo Borrelli l’ha sparata grossa. In un’intervista radiofonica, di buon mattino, il capo della Protezione civile ha dichiarato che fino al Primo maggio staremo sicuramente a casa e che la situazione, dopo, non cambierà per altre settimane ancora. E che la cosiddetta ‘fase 2’ di convivenza con il coronavirus, forse, potrebbe iniziare solo a metà del mese prossimo. Un’uscita improvvida – a poche ore dall’annuncio del premier Giuseppe Conte della proroga delle misure restrittive fino al 13 aprile – che gli ha procurato una pioggia di critiche da parte delle forze politiche.
FUGHE IN AVANTI. Se l’uscita, da una parte, ha spiazzato la maggioranza – al punto che c’è chi ha avanzato la possibilità di un cambio di guardia alla guida del Dipartimento – dall’altra ha sollevato l’ira delle opposizioni. Di “ennesimo infarto informativo” parla l’azzurro Giorgio Mulè. Per Mara Carfagna c’è “un intollerabile balletto sulle riaperture”. “Chiedo al governo – dice Giorgia Meloni – responsabilità, perché non si riesce ad avere un’informazione chiara e sono troppe le voci a parlare”. “Non è più procrastinabile la riapertura delle aziende”, ha risposto Confindustria Veneto. A reagire anche gli scienziati. “Le date per la proroga piuttosto che l’allentamento delle misure di distanziamento sociale spettano solo e unicamente al decisore politico – dice il presidente del Consiglio superiore di sanità, Franco Locatelli – quindi saranno loro a dare queste indicazioni, sicuramente anche dopo un confronto con noi, all’intero Paese”.
Al punto che Borrelli è stato costretto a una retromarcia dietro esplicita richiesta di Palazzo Chigi. “Al momento c’è una sola data che è quella del 13 aprile. Oggi alcune mie parole sono state equivocate: avevo detto che le misure sarebbero state determinate in relazione all’evoluzione della situazione in atto”. E dunque “ogni decisione sulle misure restrittive e sull’eventuale ‘fase 2’ spetterà al governo che, come sempre, si avvarrà delle indicazioni del comitato tecnico-scientifico”. Borrelli aveva già provocato l’insofferenza del Pd dopo un’intervista a Repubblica del 23 marzo in cui aveva dichiarato, tra le altre cose, che era credibile il rapporto di un malato certificato ogni dieci non censiti.
I dem, con Stefano Vaccari, attaccarono: “In emergenza, chi è a capo della catena di comando deve fare e parlare il meno possibile”. La verità è che non ha mai convinto del tutto anche il bollettino quotidiano delle 18 con l’elenco dei nuovi contagi, dei casi in terapia intensiva, dei guariti e dei morti. Dati considerati parziali, incompleti, che non sempre riescono a riflettere la realtà. I dati sui certificati di morte per malattie respiratorie, ha spiegato il presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo, mostrano che i decessi “nel marzo 2019 sono stati 15.189 e l’anno prima erano stati 16.220”. Più del corrispondente numero di morti per Covid (12.352) dichiarati nel marzo 2020. Secondo il virologo Giulio Tarro “i dati diffusi sulla mortalità in queste settimane hanno creato una sindrome da panico. La percentuale di mortalità va calcolata sul numero dei contagiati e non dei ricoverati”.
Secondo Roberto Baldassarri (leggi l’articolo de La Notizia del 27 marzo) la curva sui contagiati, così come viene fornita, non dà un quadro reale dal momento che non viene fatta una ricerca con tamponi a campione ma il numero dei tamponi varia in base alle richieste giornaliere che arrivano dalle persone sintomatiche. E “in mancanza di una rilevazione a campione non possiamo avere un’idea statisticamente significativa del numero dei contagiati sul territorio nazionale”.