Da una parte l’incontro di Giuseppe Conte con i vari senatori pentastellati. Dall’altra un voto di fiducia – quello avvenuto ieri proprio a Palazzo Madama – che sembra essere una sorta di avvertimento indirizzato proprio a Palazzo Chigi da parte dei senatori del Movimento cinque stelle. La casualità dopotutto è forte. Ricostuiamola passo dopo passo. Soltanto due giorni fa il leader pentastellato aveva detto chiaramente, in riferimento alla riforma Cartabia, che “votare la fiducia senza modifiche per il Movimento cinque stelle sarebbe difficile”. Ed ecco che il giorno dopo il Senato era chiamato a votare proprio la fiducia ma su un altro provvedimento, il decreto Recovery. Un provvedimento, questo, altrettanto importante considerando che all’interno sono contenute le norme relative alla governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza e le misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di snellimento delle procedure. Ebbene, alla fine sì dei senatori sono stati 213, i no 33. Il provvedimento è quindi stato approvato in via definitiva dal Parlamento a due giorni dalla scadenza del 30 luglio e dopo aver ricevuto il via libera (sempre con voto di fiducia) anche da Montecitorio.
Il problema però sta proprio nei numeri. Non tutti i membri di maggioranza hanno votato il decreto. E tra i “latitanti” spiccano proprio diversi senatori del Movimento cinque stelle. Secondo quanton riportato nel resoconto stenografico della seduta di ieri, infatti, ben 17 senatori non hanno partecipato alla votazione. Di questi ovviamente, come spesso accade, alcuni erano impegnati in missioni istituzionali. È il caso tra gli altri di Stefano Patuanelli, Gianluca Ferrara, Nunzia Catalfo, Giovanni Endrizzi, Rossella Accoto e Giuseppe Auddino. Accanto a chi era giustificato a non essere presente al voto, però, il resoconto ufficiale della votazione dice anche altro. Dei 34 senatori “non partecipanti alla votazione” al Senato sulla fiducia al Dl Recovery che non risultano in congedo o in missione, 9 sono del M5s (il gruppo è composto da 75 parlamentari), 4 della Lega (su 64), 4 di FI (su 50), uno di Iv-Psi (su 17), uno di FdI (su 21), nessuno del Pd (su 38), 15 del gruppo misto (su 48). I nove del M5s sono Vito Crimi, Pietro Lorefice, Alessandra Maiorino, Michela Montevecchi, Gisella Naturale, Emma Pavanelli, Gianluca Perilli, Vito Petrocelli e Paola Taverna. Tanto per la cronaca: i 4 della Lega sono Francesco Bruzzone, Stefano Corti, Rosellina Sbrana e Armando Siri. I 4 di Fi comprendono anche la presidente Elisabetta Casellati. Oltre a lei: Claudio Fazzone, Gabriella Giammanco e Renato Schifani.
VOCI DI CORRIDOIO
Nomi e numeri non sono un dettaglio. Anche perché, come dice al nostro giornale un senatore ex Cinque stelle e cacciato dopo il voto di fiducia sul governo Draghi, “vorrei capire se Vito Crimi non ritenga che siamo in presenza di un evidente squilibrio di trattamento: sono due voti di fiducia eppure chi allora decise di non partecipare o esprimere voto contrario ora è fuori dal Movimento. E lui invece?”. Dai Cinque stelle, invece, tutte le accuse vengono rispedite al mittente: “Nessun caso ‘rottura col governo Draghi’. Niente di tutto questo: chiederemo spiegazioni a chi non ha partecipato al voto e chiariremo l’equivoco”, spiegano fonti interne al gruppo M5S a Palazzo Madama. Sebbene nessuno ne dia conferma il forte dubbio è che di mezzo non ci sia né un equivoco né un contrattempo poco credibile. Il dubbio, infatti, è che, vista la coincidenza, dal gruppo del Senato (vista anche l’autorevolezza dei nomi assenti) si sia voluto mandare un messaggio chiaro al governo Draghi: l’ipotesi che senza modifiche la riforma Cartabia non venga votata dal Movimento è più che una minaccia, ma una possibilità concreta qualora il testo non venga modificato. D’altronde anche Conte, come detto, ha chiarito che la possibilità che il Movimento non partecipi al voto o voti addirittura contro la riforma se questa non dovesse subire modifiche. Una linea piuttosto chiara. E non è un caso che anche lo stesso Draghi abbia già ceduto su alcuni punti. Ma potrebbe non bastare per convincere i pentastellati. Ed è anche da questo cambio di strategia palese e concreto che si vede l’intervento del leader Cinque stelle e l’importanza di una guida che finora è mancata.