Otto giugno, Rosarno. Un migrante, Sekine Traore, muore. Sparato e ucciso dai carabinieri dopo che, questo è stato detto dopo le prime ricostruzioni, erano stati aggrediti dallo stesso 26enne maliano. Tanto che immediatamente gli inquirenti hanno precisato che il carabiniere che ha sparato è sì indagato, ma ci si avvia verso l’archiviazione in quanto legittima difesa. Peccato, però, che col passare del tempo sono emerse altre “verità”, altre ricostruzioni che potrebbero aprire spiragli e coni di luce differenti rispetto a quanto è stato detto. Ricostruzioni in cui il rapporto di forza cambia. E il maliano ucciso, in tutta questa storia, è solo una vittima. Una triste vittima di un sistema – ancora prima del carabiniere – che non funziona.
SCHIAVISMO 2.0 – Già, perchè come Sekine, nei campi di coltura italiani, sono tanti. Lavorano dodici ore al giorno sotto il sole. A volte 15. Per un guadagno che si aggira intorno ai 3 euro all’ora. Oppure si può essere pagati a cassetta: un euro se sono arance, 50 centesimi se sono mandarini. Ecco la vita dei disperati degli accampamenti di Rosarno, i “neri” come vengono chiamati nella Piana di Gioia Tauro. Veri e propri schiavi, vittime di abusi, soprusi, violenze da parte dei caporali. L’unica parola che conta è la loro. La maggior parte dei braccianti lavora senza un regolare contratto e, come denunciato da Medu (Medici per i Diritti Umani), trascorrono la stagione in strutture abbandonate, in una baracca o in una tenda sovraffollata nella zona industriale di San Ferdinando e dormendo, in più della metà dei casi, in un materasso a terra. “Sono stati circa 2.000 – denuncia l’associazione – i lavoratori che hanno affollato la zona industriale di San Ferdinando, distribuendosi tra la tendopoli e una fabbrica abbandonata in condizioni igienico-sanitarie allarmanti. Stessa sorte per le centinaia di lavoratori che vivono nei casolari abbandonati nelle campagne dei Comuni di Rizziconi, Taurianova e Rosarno, edifici fatiscenti, privi di elettricità, di servizi igienici e acqua”. Una situazione che viaggia costantemente a poca distanza dal collasso. Ed ecco allora che basta poco, molto poco, perché degeneri. Così è capitato nel 2010 con la rivolta dei migranti, che a sua volta scatenò la contro-rivolta dei locali, con venature razziste e sospette infiltrazione mafiose. Si passò poi alle tendopoli, ma a San Ferdinando, nel 2013, il sindaco ne ordinò la rimozione. Dopo pochi mesi il governo nazionale rimosse lui, arrestato per concorso con la ‘ndrangheta: il Comune fu sciolto ed è tuttora commissariato. Già, perché quando si parla di caporalato non si può prescindere dal discorso mafioso. E dagli interessi che ne derivano.
L’ultimo rapporto, pubblicato nemmeno un mese fa, dall’osservatorio Placido Rizzotto della Cgil ha fatto i conti: parliamo di un giro di affari criminale che tocca i 17 miliardi di euro. Perché non c’è solo la Calabria. In totale l’osservatorio ha contato 80 epicentri nei quali sono stati riscontrati fenomeni di caporalato, che coinvolgono ben 430mila lavoratori irregolari e potenziali vittime di caporalato. E, di questi, 100mila vivono in condizioni di sfruttamento.
INTERVENTI SOLO A PAROLE – Insomma, un cancro vero e proprio. Che peraltro è scoppiato già l’estate scorsa (dopo la morte di una bracciante in Puglia), tanto che il Ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina aveva immediatamente promesso misure specifiche per combattere il caporalato. Il disegno di legge – che prevedeva nuovi strumenti penali e confische dei terreni – è stato licenziato dal Consiglio dei ministri soltanto a novembre 2015, per poi però esser dimenticato nelle stanze del Parlamento. Qualcosa però è stato fatto, perlomeno sul piano della sensibilizzazione: soltanto pochi giorni fa, il 27 maggio, è stato firmato un Protocollo tra Governo e Regioni per realizzare progetti contro il fenomeno del caporalato e per ridare dignità ai lavoratori. Un passo in avanti, dunque. Certo: il minimo dopo un ritardo di otto mesi.
Tw: @CarmineGazzanni