Un esercito di quasi mille parlamentari. Appartenenti, come rivelato dall’ex presidente dell’Inps Tito Boeri durante un’audizione del 2018 in Senato, “a tutti i principali partiti e movimenti politici, nessuno escluso”. E che, tra il 2005 e il 2017, hanno richiesto, durante il periodo di aspettativa non retribuita dal proprio lavoro per espletare il mandato elettivo, l’accredito della contribuzione figurativa. Così, mentre maturavano (o maturano) il vitalizio tra gli scranni del Parlamento nazionale ed europeo o tra quelli dei Consigli e delle Assemblee regionali, hanno continuato a costruirsi pure la pensione. A spese, in gran parte, dei contribuenti.Tutto nel rispetto di una legge del 1999. Che, pur correggendo la precedente disciplina di sfacciato privilegio che poneva a carico della collettività l’intero costo dei contributi figurativi, consente ancora ai lavoratori dipendenti dei settori pubblico e privato di beneficiare in parte del vantaggioso meccanismo.
Versando di tasca propria, per la durata del mandato elettivo, la quota di contributi a carico del lavoratore. Calcolata prendendo come base imponibile la retribuzione costituita dai soli elementi fissi e continuativi e variabili in base alla gestione di appartenenza. “Per le gestioni private, ad esempio, per l’anno 2017, si applica il 9.19%; per le per le gestioni pubbliche si applica l’8,85% – per gli iscritti alle casse enti locali – e l’8,80% – per gli iscritti alla cassa Stato”, chiarì l’Inps a La Notizia in un articolo pubblicato dal nostro giornale il 26 settembre 2018. Più o meno un terzo del totale dei contributi. Ma chi paga la restante quota? “Gli oneri corrispondenti alla contribuzione figurativa…, quota ente datore di lavoro, gravano sui fondi pensionistici amministrati dall’Inps e sono addebitati alle rispettive gestioni previdenziali”.
Come ha ricordato lo stesso Boeri, “i contributi figurativi riconosciuti a questi parlamentari” nei 12 anni considerati, “ammontano in totale, a più di 30 milioni”. Un sistema che secondo il presidente dell’Inps, configura una vera e propria “asimmetria” tra il trattamento riservato agli eletti e quello dei comuni cittadini. Insomma, oltre ai vitalizi, agli eletti dai Consigli regionali in su, paghiamo pure gran parte della pensione. Una stortura che ora i Cinque Stelle puntano a raddrizzare. Eliminando, innanzitutto, i tanti abusi resi possibili con un semplice trucchetto permesso dalla legge: farsi riconoscere uno scatto di qualifica (e di stipendio) o nominare dirigenti poco prima dell’insediamento nell’organo elettivo. Per ottenere, sfruttando una norma del 1981, il calcolo della contribuzione figurativa “sulla media delle retribuzioni settimanali percepite in costanza di lavoro nell’anno solare”.
E, quindi, una pensione più alta. Un trucchetto con le ore contate se il ddl del senatore M5S, Sergio Puglia (nella foto), venisse approvato (i Cinque Stelle premono perché venga calendarizzata al più presto in commissione Lavoro). Stabilendo infatti che “le retribuzioni da riconoscere ai fini del calcolo della pensione sono commisurate alla media delle retribuzioni percepite negli ultimi cinque anni precedenti al momento del collocamento in aspettativa”, l’espediente della promozione a ridosso dell’elezione non sarebbe più possibile. E non è tutto. Oltre ai dipendenti del settore pubblico e privato, eletti al Parlamento nazionale, europeo o nelle assemblee regionali, la norma si applicherebbe pure a quelli collocati in aspettativa per lo svolgimento di cariche sindacali e che, successivamente, siano chiamati ad espletare uno dei mandati elettivi indicati dalla legge.
Per loro, come rivelato da un Rapporto dell’Inps citato nella relazione al ddl Puglia, il trattamento è addirittura più favorevole: “A parità di regole per il calcolo della pensione, in media quelle dei sindacalisti” sono “migliori di quelle dei lavoratori dipendenti”. Al punto che “se la pensione lorda annua dei sindacalisti venisse conteggiata applicando le stesse regole dei dipendenti pubblici sarebbe inferiore in media del 27 per cento”.