di Vittorio Pezzuto
«La scuola non ha bisogno di questi shock anafilattici. Purtroppo ogni ministro decide di cambiare quanto è stato deciso dal proprio predecessore, magari solo pochi mesi prima. Questo modo di procedere crea sconcerto nell’ambiente, col risultato che nessuna innovazione riesce a consolidarsi. Soprattutto nell’animo degli insegnanti».
Il decreto Carrozza sulla scuola fa scuotere la testa al professor Mario Rusconi, presidente dei presidi della Provincia di Roma e del Lazio (solo nella capitale ne riunisce 450 su 600) e da ormai 15 anni vicepresidente dell’Associazione nazionale presidi (che raccoglie la metà circa degli 8mila dirigenti italiani). Non è solo una questione di metodo. Attuale collaboratore della Direzione generale dello studente del Ministero dell’Istruzione, Rusconi contesta ad esempio l’abolizione del bonus maturità per i test di accesso alle Facoltà a numero chiuso: «Era necessario correggerlo ma eliminarlo significa che lo Stato non dà alcun peso a un esame per il quale peraltro spende ogni anno centinaia di migliaia di euro».
Questo decreto non serve a rendere effettiva la riforma Berlinguer sulla parità scolastica.
«Vero. Per la prima volta nel 2000 è stato affermato il principio che la scuola è pubblica indipendentemente dal fatto che sia gestita dallo Stato, da un Comune, da una congregazione religiosa o da un privato tout court. Purtroppo tutti i governi che da allora si sono succeduti non hanno promosso concretamente lo sviluppo della scuola non statale».
In che modo?
«I meccanismi possono essere tanti. Dal voucher (come in parte è stato fatto in Lombardia) ad altri sistemi (adottati ad esempio in Olanda e in Belgio) in cui è lo Stato a pagare gli insegnanti delle scuole cattoliche o riformate. Come al solito, da noi ha prevalso il contenzioso banalmente ideologico fra guelfi e ghibellini, tra chi dice che l’unica scuola valida sia quella statale e quanti negano che vi sia libertà se il genitore non può iscrivere il proprio figlio a una scuola non statale. Uno Stato che tiene alla formazione dei propri giovani dovrebbe invece finanziare una scuola in base alla qualità dei suoi risultati, indipendentemente dal fatto che sia di proprietà dello Stato o di un privato.
Come misurare l’eccellenza?
Come al solito da noi si preferiscono le scorciatoie. In Italia manca del tutto un cultura della valutazione di sistema. Basti osservare come, alla fine dell’anno scolastico nessun insegnante e nessun preside viene valutato per la qualità del proprio lavoro. Un dato che accomuna tutte le scuole, statali e non. Mentre queste ultime, per accreditarsi agli occhi dell’opinione pubblica, dovrebbero anzi puntare tutto su innovazione formativa e qualità della didattica. Purtroppo spesso non avviene e in alcuni casi assistiamo al contrario a veri e propri diplomifici, perlopiù non riconducibili alla scuola cattolica».
Le scuole paritarie non ricevono soldi pubblici e al tempo stesso ne fanno risparmiare parecchi.
«La polemica contro le scuole non statali non tiene conto che la loro chiusura provocherebbe un contraccolpo insostenibile per le casse dello Stato. Se non ci fossero le scuole dell’infanzia o le scuole primarie cattoliche moltissimi bambini e ragazzi dovrebbero restarsene a casa perché lo Stato non avrebbe nemmeno le risorse per costruire i nuovi edifici scolastici in cui accoglierli. Non dimentichiamoci poi che in una scuola media superiore uno studente di una scuola cattolica può costare circa 4mila euro l’anno rispetto ai 7-8mila della scuola statale».
Invece di promuovere un sistema vario e basato sulla concorrenza tra istituti, si continua a discriminare questi istituti.
«Occorrerebbe in effetti cambiare mentalità: preoccupiamoci di assicurare una buona formazione educativa ai nostri figli e mettiamo finalmente da parte le beghe paraideologiche che da troppo tempo intossicano il nostro mondo».