di Vittorio Pezzuto
A Valentina Aprea, assessore all’Istruzione e alla Formazione della Regione Lombardia e per molti anni sottosegretario all’Istruzione nei governo Berlusconi, chiediamo innanzitutto di individuare il difetto all’origine del sistema scolastico italiano. «Purtroppo – ci spiega – scontiamo ancora adesso un’interpretazione degli articoli della Costituzione che attribuiscono allo Stato la garanzia dell’istruzione a tutti i cittadini e che nella Prima Repubblica ha giustificato una quantità ingentissima di investimenti pubblici per la costruzione di un sistema che coprisse interamente le esigenze del settore educativo. In quella fase si è voluto tollerare la presenza della scuola non statale, senza oneri per lo Stato e con un sistema di controlli che riguardavano soprattutto la fase finale dei percorsi, stabilendo che gli esami dovessero comunque essere svolti nelle scuole pubbliche».
Eppure stiamo parlando di un periodo politico storico dominato dalla Democrazia Cristiana.
«Verissimo, ma purtroppo anche quel partito riteneva che all’indomani del regime fascista dovesse essere data priorità a una ‘nuova’ educazione dei cittadini. Con gli anni si è poi compreso che un sistema così concepito cresceva soprattutto in termini di apparato burocratico, limitando sempre di più le esigenze delle famiglie e degli insegnanti».
La Seconda Repubblica non sembra però aver segnato una significativa inversione di tendenza.
«Non sono d’accordo. Con l’avvento sullo scenario politico di Silvio Berlusconi e Forza Italia è stato rilanciato il principio liberale che un servizio pubblico può anche essere svolto da un privato. Si è così assistito a un benefico contagio di nuove idee, che hanno infine portato nel 2000 all’approvazione della legge n. 62 voluta dall’allora ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer. Per la prima volta è stato riconosciuto a pieno titolo il ruolo di servizio pubblico delle scuole private, definite ‘paritarie’. Peccato che sotto il profilo dei finanziamenti tutto sia rimasto come prima per colpa di un apparato burocratico-amministrativo sempre più potente ed esteso. Basti pensare che dopo l’approvazione della Riforma Bassanini il Ministero dell’Istruzione è stato affiancato dai nuovi uffici scolastici regionali e provinciali».
Cosa servirebbe invece?
«Occorre liberare finalmente la scuola, rendendola pienamente autonoma con la gestione diretta delle risorse umane e d economiche. Tony Blair sosteneva che “il finanziamento deve seguire l’alunno”. Da noi avviene il contrario. Il finanziamento a tutte le scuole statali e paritarie dovrebbe invece avvenire direttamente sulla base della scelta della famiglia e della valutazione dell’efficacia dei percorsi formativi. Oggi questi due criteri sono inesistenti e si dà ad esempio per scontato che una scuola sia di buon livello per il solo fatto di essere statale… Non si capisce che il miglioramento dell’offerta educativa passa innanzitutto da un regime di sana concorrenza tra modelli e istituti differenti».
Può spiegarci la politica sulla scuola adottata dalla Regione Lombardia?
«Abbiamo istituito una dote che arriva direttamente alla famiglia che sceglie una scuola paritaria accreditata dallo Stato e dalla stessa Regione. Stiamo parlando di una somma annua tra 450 e 700 euro per le scuole primarie, tra 550 e 800 euro per le secondarie di primo grado e tra 650 e 900 per le secondarie di secondo grado. Questo modello ha avuto un grandissimo successo, tanto che la quota di iscritti alle paritarie è salita al 18% degli studenti. Nel caso di famiglie che abbiano un Isee inferiore ai 15mila euro abbiamo anche previsto un’ulteriore integrazione al reddito. Per ogni ragazzo che invece si iscrive a percorsi di formazione di qualifiche professionali regionali di validità nazionale ed europea riconosciamo un contributo pari a 4.500 euro all’anno, ai quali si aggiungono altri 3.000 euro in caso di disabilità».
Perché i Governi Berlusconi non sono riusciti a compiere una completa rivoluzione liberale nel settore della scuola?
«La riforma Moratti prima e quella Gelmini poi hanno introdotto molti cambiamenti. Ma per ottenere un’effettiva parità tra scuola pubblica e privata avremmo dovuto poter contare su un pieno coinvolgimento del Ministero dell’Economia. Così non è stato. È mancata la forza politica di intaccare in maniera significativa gli organici degli insegnanti statali. Io stessa sono stata minacciata a suo tempo per aver proposto la chiamata diretta degli insegnanti da parte delle scuole, sulla base delle loro effettive esigenze e come conseguenza di una selezione di natura pubblica con riferimento a una laurea o a un corso di specializzazione che abilitasse alla professione. Ci vorrebbe un governo liberale di centrodestra molto forte, capace di non farsi intimorire dall’apparato burocratico. Non dimentichiamo che in Italia alcuni settori pubblici (penso in particolare all’Università e alla Sanità) sono monopolizzati di fatto da clientele e rendite di posizione anche di natura familistica. Vede, il nostro modello è troppo generoso per poter funzionare. Ci vorrebbero meno uffici, meno burocrazia e meno insegnanti. E se procedi con botte di assunzione di 150mila precari non vai certo nella direzione giusta».
Aiutare i privati. Si premi il merito
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«Dal governo ci aspettiamo che si ritorni a investire sulla scuola come bene di istruzione fondamentale e che si dia agli istituti la facoltà di poter utilizzare investimenti secondo progetti educativi stabiliti dalle scuole, naturalmente rispondendo a controlli che ne valutino l’efficacia». È l’auspicio espresso con pacatezza unita a un pizzico di giustificata rassegnazione dal professor Roberto Pellegatta, presidente della Disal (l’associazione che riunisce 534 dirigenti di scuole statali e non statali). Il pregiudizio ideologico che ancora oggi, nella scuola come in altri settori, vorrebbe che a fornire un servizio pubblico sia esclusivamente lo Stato «risale a una difficoltà da parte della sinistra a riconoscere il valore sociale e pubblico che viene dalla società che si organizza. Salvo poi ammettere l’eccezione delle associazioni private che si occupano di recupero dei tossicodipendenti, forse perché operano in un settore in perenne emergenza». La legge che ha riconosciuto la parità scolastica, non essendo stata accompagnata da un meccanismo di finanziamento che applicasse concretamente questo principio, di fatto costringe le scuole non statali a cercare le risorse necessarie innanzitutto presso le famiglie. «Anche se bisogna aggiungere – precisa – che lo sforzo di tantissime scuole paritarie, specie quelle materne, è quello di utilizzare ogni strumento compensativo idoneo. Ad esempio con le borse di studio». La deducibilità fiscale delle spese sostenute dalle famiglie per l’istruzione dei propri figli «può senz’altro essere uno strumento ma credo che ancora più efficace potrebbe rivelarsi un riconoscimento economico che attribuisca un finanziamento diretto pro-capite per alunno a tutte le scuole (statali e non statali), lasciando alle stesse la piena libertà nell’utilizzo di questi fondi, prevedendo beninteso severi meccanismi di controllo». Così come si è strutturata negli anni, la scuola italiana è stata invece ritagliata «non in base alle esigenze formative degli alunni ma su quelle degli insegnanti e dell’apparato burocratico. L’ideologia politica prevale sugli interessi dei ragazzi. Da questo punto di vista, l’aspetto più clamoroso resta il metodo di calcolo di attribuzione degli organici del corpo docente, che non risponde a reali esigenze didattiche ma solo al mantenimento dell’apparato burocratico. Per essere chiari, il calo del numero degli studenti non ha frenato l’introduzione del modulo dei tre maestri…». Quali rimedi? «La soluzione potrebbe essere da un lato l’introduzione di una competitività regolata ma effettiva all’interno del sistema scolastico, dall’altro l’abolizione del valore legale del titolo di studio». Gli chiediamo se l’attuale modello di scuola pubblica, impedendo alle famiglie meno abbienti di scegliere un istituto privato, non determini le condizioni per il blocco degli ascensori sociali. «Si tratta di un problema più complesso. La verità è che è proprio l’istruzione in quanto tale ad essersi via via svalutata come bene sociale e quindi anche come bene di investimento sul futuro di una carriera e di un’intera vita. Le stesse lauree hanno perso ogni valore. I meccanismi burocratici delle graduatorie dei concorsi pubblici non valutano adeguatamente la formazione e il merito. E per quanto riguarda il settore privato, non c’è da stupirsi se ad esempio tutte le banche assumono allo stesso livello salariale tanto il laureato in economia quanto il diplomato in ragioneria».
No, solo il pubblico. Eccellenze da tutelare
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La scuola pubblica italiana è di eccellenza ma ha gravi carenza strutturali. Dunque se ci sono soldi da investire prioritariamente vanno dedicati al pubblico. Chi non vede di buon occhio gli sgravi della scuola privata parte da questo ragionamento. “La struttura pubblica necessita di tutta una serie di interventi non più rimandabili e invece sempre rimandati – denuncia Adele Vaino, preside del liceo classico Manzoni di Caserta – che vanno da finanziamenti per il ripristino e la manutenzione delle strutture fisiche (aule, palestre, edifici) ad un complessivo riordino e razionalizzazione di orari, risorse, criteri per la selezione dei docenti. Ci sono scuole dove, per un incredibile e fortunato mix di circostanze le cose vanno bene, spesso benissimo. Altre dove niente funziona e si naviga a vista nel caos più totale. Istituti dove le amministrazioni del territorio sono immobili o addirittura frenano i progetti, i supplenti quando arrivano sono lasciati in balia di se stessi, i genitori non vengono informati, e alla fine anche il docente più motivato e pieno di voglia di fare si arena. Le scuole private, complice il costo delle rette, una gestione forse più attenta delle risorse riescono a mantenere migliori gli ambienti. Le scuole pubbliche, invece, sono spesso molto grigie e fatiscenti. Non hanno rette e devono barcamenarsi con quanto ogni anno viene passato da provveditorati, province e ministero. Tuttavia l’abito non fa il monaco, ed è quindi necessario andare più a fondo. Il principio fondamentale è che la scuola pubblica è di tutti. Più si allarga la forbice tra ricchi e poveri, più è importante non discriminare ulteriormente chi parte da una situazione difficile con un’educazione di serie B. Difendere la scuola pubblica è importante perché è una scuola che può formare figli capaci di pensare criticamente e in autonomia. L’istruzione pubblica – ribadisce ancora Vaino – è garanzia di uguaglianza, di coesione sociale, quindi di democrazia. È un sistema più aperto e di maggiore confronto con il territorio perché è un ente che collabora con altri enti. Mandare il proprio figlio alla scuola privata è un diritto, lo dice la Costituzione, ma non è un diritto farsela pagare. Lo Stato – spiega Vaino – dovrebbe accendere i riflettori sulla scuola pubblica e concepire la cultura, l’istruzione e la cultura come priorità assoluta di uno stato civile e democratico. Mentre i soldi si perdono tra nei labirinti della burocrazia, senza produrre un miglioramento tangibile del sistema sociale. “Non sono contraria alle scuole private- conclude Vaino – sono contraria al fatto che i soldi pubblici debbano finanziarle, soprattutto in un momento in cui le istituzioni scolastiche pubbliche stanno crollando.
Mi sembra fondamentale erogare finanziamenti alla scuola pubblica per farla sopravvivere, crescere e renderla competitiva anche a livello internazionale. La scuola privata, di ogni ordine e grado, viene considerata la scuola più elitaria e più esclusiva in cui, si suppone, bambini e ragazzi riceveranno un istruzione di maggiore qualità rispetto alla banale e tanto vituperata scuola pubblica. Ma queste sono leggende metropolitane. Ripeto: va ristabilito un concetto basilare: la qualità non la fanno i servizi ma il livello di insegnamento che viene offerto agli alunni. Su questo la scuola pubblica non teme confronti. Per il resto… mancano i fondi. Ecco perché sarebbe meglio investirli sul pubblico”.