C’è una cifra che oggi definisce i confini del diritto: 348.143 euro. È l’importo che il Tribunale delle imprese di Roma ha imposto a 104 cittadine e cittadini del Movimento No Ponte per aver tentato di far valere, nelle aule di giustizia, il diritto a un controllo di legalità sul progetto del Ponte sullo Stretto di Messina. Una somma spropositata, comminata non per un danno provocato, ma per aver promosso un ricorso giudiziario ritenuto inammissibile.
I ricorrenti chiedevano al tribunale un pronunciamento sulla correttezza delle procedure seguite per il riavvio dell’opera: in particolare, che venisse ordinata alla società Stretto di Messina S.p.A. la cessazione immediata di ogni attività lesiva di diritti collettivi giuridicamente protetti, tra cui il diritto all’ambiente e alla salute. Inoltre, si sollecitava una valutazione di legittimità costituzionale delle norme che hanno consentito la riattivazione del progetto.
La decisione è arrivata lo scorso 9 gennaio, con una sentenza che liquida 238.143 euro di spese legali in favore della società Stretto di Messina, a cui si aggiungono gli oneri di legge fino a raggiungere l’importo finale. La motivazione è assente. Il ricorso è stato giudicato inammissibile, ma la quantificazione delle spese, secondo i ricorrenti, è priva di giustificazione e in evidente squilibrio con la natura dell’azione promossa.
Un sistema che scoraggia il controllo democratico
La vicenda solleva una questione più ampia: il diritto di accesso alla giustizia come strumento di partecipazione democratica. In Italia, come ricordano Wwf e otto associazioni di consumatori, si osserva una tendenza giurisprudenziale che scoraggia, se non impedisce, l’utilizzo delle azioni collettive. Si contesta in particolare la disparità di trattamento nel calcolo delle spese: nei casi di rigetto si applica il principio del “disputatum” (cioè il valore della causa come discusso dai ricorrenti), mentre in caso di soccombenza si utilizza il “decisum” (il valore determinato dal giudice), con effetti potenzialmente dissuasivi.
Il procedimento civile promosso dal Movimento No Ponte si basava sull’azione inibitoria, uno strumento previsto dall’ordinamento italiano ed europeo per tutelare interessi diffusi, non dissimile da una class action. L’obiettivo era sottoporre a controllo giurisdizionale le fasi preliminari del progetto, in un contesto in cui tutti i passaggi decisionali – dal Comitato tecnico scientifico alla Commissione Via-Vas fino al Cipess – risultano presidiati da soggetti in larga parte nominati dalla stessa filiera istituzionale che promuove l’opera.
Nel frattempo, il parere della Commissione Via-Vas, arrivato dopo la presentazione del ricorso, ha evidenziato 62 prescrizioni e un giudizio negativo sull’impatto ambientale nelle Zone di protezione speciale dello Stretto. Ma la procedura prosegue. E la condanna alle spese rischia di diventare un segnale: ogni opposizione legittima può trasformarsi in un debito. E chi solleva dubbi su un’opera di questa portata si espone non solo al discredito pubblico, ma anche a un rischio patrimoniale che finisce per spostare l’asse del potere ben oltre la sfera politica.
Le conseguenze di un precedente pericoloso
La storia del Movimento No Ponte è lunga e attraversa decenni di mobilitazioni. Nel 2006, oltre 20 mila persone manifestarono a Messina contro la posa della prima pietra. Quella protesta contribuì allo stop del progetto. Oggi, davanti a una sentenza che colpisce il ricorso collettivo, torna d’attualità la questione dell’equilibrio tra potere e diritto. Perché se la possibilità di agire in giudizio dipende dalla disponibilità economica, anche la democrazia finisce per poggiare su fondamenta diseguali.