Direttore Luca Bianchi, dall’osservatorio Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria del Mezzogiorno) come guarda alla guerra dei dazi ingenerata da Trump e che effetto comporta su quei territori – penso proprio al Mezzogiorno – che presentano delle maggiori e storiche vulnerabilità socioeconomiche?
“L’imposizione di dazi da parte di Trump – ad oggi è in vigore una tariffa generalizzata del 10% su tutti i beni importati e una tariffa specifica del 25% su Auto, acciaio e alluminio, oltre a quella monstre (145%) sui prodotti cinesi – avrà un impatto significativo sull’intera economia europea, con particolare riferimento all’Italia, data la rilevanza del mercato statunitense per le sue esportazioni (circa 63 miliardi di euro nel 2024, oltre il 10% del totale). Questa misura colpirà tutte le regioni italiane, incluso il Mezzogiorno. In base alle nostre stime l’impatto potrebbe essere di circa 3 decimi di punto di Pil e mette a rischio oltre 80 mila posti di lavoro. Nel Sud l’impatto si concentra su alcuni settori particolarmente dinamici come l’agroalimentare e l’elettronica, oltre all’automotive”.
Obiettivo del governo è recuperare 25 miliardi dalla revisione di risorse europee per far fronte all’emergenza dazi con misure di sostegno all’economia. La strada giusta?
“Una strada molto pericolosa per il Sud. Basti considerare che la grande parte delle imprese esportatrici italiane sono al Centro-Nord (oltre l’80%) mentre le risorse della coesione sono destinate per quasi l’80% al Sud e il Pnrr per il 40%. Il rischio è che per dare risposta ad ogni tipo di emergenza si smantellano gli interventi per la riduzione dei divari. Va dunque scongiurato il rischio che le risorse siano riallocate al Nord, mantenendo il vincolo di destinazione e utilizzando i fondi oggetto della revisione per fornire aiuti alle imprese del Sud colpite dai dazi”.
Cosa ne pensa della riforma europea di spostare su base volontaria i fondi di coesione verso nuove priorità strategiche?
“Il Piano Rearm Eu propone un utilizzo delle risorse della coesione inconciliabile con i suoi obiettivi di inclusione economica, sociale e territoriale. La coesione rappresenta un pilastro costitutivo dell’Unione europea che non può essere indebolito di fronte ad ogni emergenza. Tuttavia, il basso tasso di spesa del ciclo 2021-2027 e il debole consenso politico intorno a questa politica potrebbe determinare una forte pressione della Commissione e delle stesse istituzioni nazionali per un loro utilizzo per investimenti nella difesa. Non basta dunque opporsi a tale proposta ma occorre prendere atto dell’urgenza di una profonda riforma che faccia i conti con i suoi «fallimenti», ma che sia in grado di valorizzarne il potenziale in termini di costruzione di un’Europa più inclusiva e competitiva”.
Il prossimo martedì sarà proprio a Bruxelles per incontrare il vicepresidente della Commissione Raffaele Fitto. Quali le istanze che presenterete come Svimez?
“Sarà l’occasione per illustrare le nostre posizioni su una necessaria riforma organica delle politiche di coesione che, mantenendo la focalizzazione sulla riduzione dei divari, replichi il modello performance based del Pnrr. Avere obiettivi e target chiari e misurabili è infatti anche essenziale per creare una constituency, oggi assente per le politiche di coesione, che le sostenga e difenda in sede europea”.
Spesso sentiamo la formula “dazi autoimposti” in riferimento alla gestione europea di alcune politiche come il green deal che hanno colpito in particolar modo il settore dell’automotive. Sta funzionando il Piano Italia varato dal governo per la crisi Stellantis?
“La crisi dell’automotive europea viene da lontano e precede la transizione all’elettrico, che non è imposta dalle normative europee, ma dalle dinamiche del mercato globale. Il problema è che l’industria europea sta perdendo la partita dell’innovazione – sia sul versante digitale, che ecologico – con i competitors internazionali. In questo quadro, la situazione del Mezzogiorno è particolarmente delicata, visto che ormai quasi il 90% della produzione di auto è negli stabilimenti meridionali. I numeri del primo trimestre del 2025 sono drammatici. Già nel 2024 la produzione di autoveicoli in Italia si è fermata a 475mila unità, con una riduzione del 37% sul 2023 che ha riportato i volumi complessivi ai livelli degli anni ’50. Rispetto a quest’annata estremamente negativa, la produzione tra gennaio e marzo di quest’anno ha perso un ulteriore 35%. Se continua il trend attuale, la produzione annua dello stabilimento di Melfi sarà inferiore ai 40mila autoveicoli, a fronte di una capacità produttiva dieci volte superiore. I dazi statunitensi del 25% potrebbero impattare soprattutto Pomigliano e la rispettiva catena di fornitura (l’export della Campania nel comparto è stato di 326 milioni nel 2024). Rispetto alle proporzioni della crisi in atto, che andrà aggravandosi considerando i nuovi vincoli al commercio internazionale, sia il Piano europeo sia quello italiano risultano carenti. Mancano risorse, coraggio e obiettivi politici chiari, così come iniziative adeguate volte a ridurre il gap sulla filiera elettrica, ridando slancio al progetto strategico della gigafactory di Termoli”.
Pensando ai tanti lavoratori in cig e che rischiano il posto di lavoro, vengono in mente i quesiti referendari che saremo chiamati a votare il prossimo 8-9 giugno. Cosa pensa di questa campagna promossa dalla Cgil che proprio oggi – sabato 12 Aprile – parte formalmente?
“Al di là delle posizioni sui singoli quesiti, credo che in questo momento storico in cui troppo spesso vengono messi in discussione valori democratici che pensavamo ormai acquisiti su entrambe le sponde dell’Atlantico, è importante ribadire l’importanza della partecipazione”.