Giorgia Meloni e Ursula von der Leyen si sono riviste per un faccia a faccia a Roma che nelle intenzioni doveva proseguire quel dialogo non proprio semplice avviato a Bruxelles a inizio novembre alla prima uscita internazionale della premier. I temi sul tavolo più o meno gli stessi di due mesi fa, dal Pnrr ai migranti, dall’energia all’Ucraina. Con l’aggiunta di quanto è accaduto in Brasile.
L’Italia si prepara a chiedere all’Ue di aggiornare il Pnrr alla luce del caro-energia e del caro-materiali
Un’ora e quarto di colloquio al termine del quale una nota di Palazzo Chigi fa sapere che l’incontro, svoltosi con la partecipazione del ministro per gli Affari Ue, la Coesione e il Pnrr, Raffaele Fitto, “ha rappresentato un’ottima occasione per uno scambio di vedute in preparazione del Consiglio Ue straordinario del 9-10 febbraio dedicato in particolare all’economia e alla migrazione”. In tema di ripresa economica, “è stato inoltre riaffermato l’impegno del governo italiano sul Pnrr”.
Nel corso dell’incontro è stata anche condivisa la condanna per gli atti violenti in Brasile e la solidarietà alle istituzioni democratiche del Paese. È stata inoltre espressa soddisfazione per la firma, prevista oggi a Bruxelles, della dichiarazione congiunta Ue-Nato. In vista del prossimo Consiglio europeo “abbiamo discusso di come continuare a sostenere l’Ucraina, garantire energia sicura e a buon mercato, promuovere la competitività dell’industria dell’Ue, fare progressi sul Patto sulla migrazione. Abbiamo anche discusso dell’attuazione del Pnrr in Italia”, ha commentato la presidente della Commissione europea.
Ma fermiamoci sul Pnrr. L’Italia si prepara a chiedere di aggiornare il Piano alla luce del caro-energia e del caro-materiali. Ma l’esecutivo ha in mente anche di rivederne la governance, passaggio che ugualmente va concordato con Bruxelles. Già col decreto ministeri, che ha ridisegnato nomi e perimetro delle deleghe di diversi dicasteri, si è previsto che il Servizio centrale per il Pnrr, di stanza al Mef e guidato da Carmine di Nuzzo, operi “a supporto” dell’autorità delegata. Non più quindi via XX settembre ma il nuovo ministero ad hoc che la premier ha affidato al fedelissimo Fitto.
Ora l’intenzione è quella di mettere mano anche al resto delle strutture intermedie, le unità per il Pnrr istituite nei singoli ministeri che dovrebbero diventare immediatamente sostituibili. Non si tratterebbe tanto di spoils system, insistono dal governo, quanto di rendere più efficiente una macchina che finora ha mostrato limiti e che invece deve girare a pieno regime soprattutto nella nuova fase di “messa a terra” degli investimenti, di apertura effettiva dei cantieri.
Qualche indicazione, sia della revisione da chiedere a Bruxelles sia della direzione della nuova governance, potrebbe arrivare dalla relazione al Parlamento che va fatta ogni semestre e che il governo dovrebbe presentare sempre nelle prossime due-tre settimane. L’Italia vorrebbe più tempo per la messa a punto dei target concordati con l’Ue. Il problema, per il governo, non è la quantità di risorse ma il loro assorbimento. Difficilmente l’Ue accetterà di rinviare a oltre il 2026 la deadline del Next Generation.
L’Ue, di fatto, ha permesso di aggiungere un capitolo al piano, quello del RePower Ue, nell’ambito del quale all’Italia spetteranno circa 9 miliardi. Roma vuole un negoziato sulle modifiche più ampio. Che riguardi anche la rimodulazione e la destinazione diversa dei Fondi di coesione. L’alveo giuridico è l’articolo 21 del Regolamento del Next Generation, la linea rossa suggerita dalla Commissione è non modificare riforme e macro-obiettivi. Sul resto l’Ue ha già mostrato aperture, anche perché l’Italia non è il solo Paese ad aver chiesto modifiche.
In gioco nel prossimo semestre c’è una rata da 16 miliardi da sbloccare dopo 27 obiettivi
In gioco nel prossimo semestre c’è una rata da 16 miliardi da sbloccare dopo 27 obiettivi. Ma il governo non ha alcuna intenzione di centrarli tutti nei prossimi sei mesi. I paletti dell’Ue non mancano: i cambiamenti dovranno essere limitati ai singoli progetti – quindi no a modifiche che valgono per più voci – e non dovranno stravolgere, appunto, le riforme.
Il governo parte dal presupposto che una parte del Pnrr non è più attuale, per diverse ragioni: innanzitutto è stato scritto prima della guerra in Ucraina e della conseguente rincorsa dei prezzi dei materiali e dell’energia, e poi alcuni progetti non sono più allettanti. È il caso di quelli sull’idrogeno verde, il combustibile su cui Bruxelles puntava due anni fa, ritenendolo alla base della prossima rivoluzione dei trasporti.
In realtà la rivoluzione dovrà attendere, anche a causa della spinta che sta avendo l’elettrico. Per questo si punta a cambiare il cronoprogramma, che attualmente entro marzo prevede l’aggiudicazione degli appalti per lo sviluppo di 40 stazioni per il rifornimento di idrogeno per auto e camion lungo la rete stradale. Appalti su cui gli operatori non hanno manifestato alcun entusiasmo. Nemmeno la rete ferroviaria è pronta a fare il salto: in teoria, entro marzo bisognerebbe assegnare le risorse per costruire nove stazioni per rifornire treni a idrogeno lungo sei linee ferroviarie, un progetto che non ha riscosso l’interesse di Ferrovie dello Stato (Fs) e che potrebbe interessare altri ma i tempi sono comunque troppo stretti per rispettare il target.
Un altro capitolo su cui il governo sarebbe intenzionato a chiedere uno slittamento dei tempi è il nuovo codice degli appalti, approvato dal Cdm a fine dicembre. Il Pnrr prevede che entri in vigore entro fine marzo, ma il ministro delle Infrastrutture e Trasporti Matteo Salvini, qualche settimana fa, aveva parlato di un possibile slittamento a fine anno da negoziare con la Commissione Ue.
Se da un lato, infatti, il nuovo codice è pensato per semplificare gli appalti snellendo la burocrazia, dall’altra l’entrata in vigore di nuove regole potrebbe inizialmente rallentare il processo di aggiudicazione, con ricadute soprattutto per le opere del Pnrr. Sono proprio queste ultime a preoccupare il governo, che intende accelerare in ogni modo visti i ritardi sulla spesa dei fondi: il governo Draghi prevedeva ad inizio 2022 di spendere 40 miliardi, e invece il bilancio attuale si ferma a meno della metà.